Era il 1994, nel pieno della guerra in Bosnia. La città industriale di Zenica – settanta chilometri da Sarajevo – accoglieva la “Brigata Mujahiddin”, arrivata per combattere i nazionalisti serbi e croati. Terminata la battaglia quel gruppo di combattenti islamisti, arrivati dalla penisola arabica, si trasformarono nei padroni della città, raccontano le cronache dell’epoca. Dieci anni dopo Zenica è di nuovo un nome che conta nella jihad globale, mostrando come l’attuale conflitto in Iraq e Siria abbia origini complesse e antiche. E molto vicine a noi. Qui – dall’altra parte dell’Adriatico – passano i soldi diretti al Califfato islamico, trasformando Zenica, la quarta città della Bosnia, in uno dei vertici delle triangolazioni usate per finanziare ed armare l’Isis. Un indirizzo strategico che si aggiunge alla Turchia, pezzo della retrovia della guerra combattuta tra Iraq e Siria.

La via segreta dei jihadisti
A raccontare la via segreta dei jihadisti è l’ultima inchiesta della Corte penale del Missouri, negli Usa, che il cinque febbraio scorso ha incriminato sei cittadini bosniaci – regolarmente residenti – accusati di aver raccolto soldi e materiale militare a favore dello Stato islamico. Le indagini hanno preso spunto dalla storia di Abdullah Ramo Pazara, un bosniaco che nel maggio del 2013 ha deciso di partire per la Siria, come “foreign fighter”. Non è un lupo solitario. Dopo il suo arrivo sul fronte siriano, nello stato del Missouri un gruppo di bosniaci si attiva, creando una rete di solidarietà pronta a finanziare la guerra di Pazara, combattuta sotto le insegne del Califfato. Utilizzando Paypal e le agenzie della Wester Union, il gruppo inizia a raccogliere donazioni e ad acquistare sistemi ottici per fucili di precisione, uniformi dell’esercito statunitense ed equipaggiamento da combattimento. Oltre a migliaia di dollari, destinati, tra l’altro, ad aiutare le famiglie dei combattenti rimaste in Bosnia o a finanziare i viaggi di altri “foreign fighter”.

Per evitare i controlli, il gruppo – si legge nelle carte dell’inchiesta – utilizzava una precisa triangolazione, evitando di attirare i sospetti con invii di soldi e merci verso la Siria o l’Iraq. I luoghi preferiti per il transito erano la Bosnia-Herzegovina, la Turchia, la Macedonia e il Montenegro. Nel caso della Bosnia – paese di origine del gruppo – e del Montenegro i fondi servivano almeno in parte a “supportare le famiglie delle persone che hanno combattuto, o che combattono, in Siria e Iraq”, costituendo una rete internazionale di supporto.

Divise e ottiche di precisione, dagli Usa ai mujahiddin
L’invio del materiale per uso militare era iniziato già nel 2013, subito dopo la partenza di Pazara. Nell’agosto di quell’anno Siki Ramiz Hodzic, uno dei bosniaci coinvolti nell’inchiesta, aveva inviato ad un intermediario di Istanbul tre pacchi con divise, vestiti tattici, stivali da combattimento e altre attrezzature militari. Dalla Turchia il tutto era poi arrivato al gruppo di combattenti legati a Pazara, attraversano la fragile frontiera turca. Nel frattempo all’interno della comunità bosniaca negli Usa inizia la raccolta di fondi, che vengono utilizzati per acquistare le ottiche di precisione da inviare ai cecchini dell’Isis. Pochi giorni dopo sui loro account Facebook o via email arrivano le foto dei combattenti vestiti con le divise appena ricevute e con i fucili da cecchini in mostra.
Tra le città turche citate nell’inchiesta Usa, oltre a Istanbul c’è Gaziantep, ritenuta, insieme a Sanliurfa e Adiyaman, uno dei centri di contatto con i reclutatoti dell’Is. Una conferma di quella permeabilità della Turchia ai militanti del Califfato apparsa chiara fin dall’inizio del conflitto, e che gli analisti ritengono cruciale.

Il ritorno della via dei Balcani
Dopo l’attentato dell’agosto del 2003 al quartier generale dell’Onu in Iraq, che costò la vita all’inviato delle nazioni unite Sérgio Viera de Mello, la brigata jihadista irachena nella rivendicazione dell’azione fece riferimento al “massacro di settemila mussulmani a Srebrenica nel 1995”. Quel conflitto – che senza dubbio ha visto tante colpe attribuibili alle nazioni unite – è ancora oggi una pietra miliare nella propaganda islamista ed ha rappresentato, già all’epoca, il primo tentativo di costituzione di uno stato islamico alle porte dell’Europa. Durante la guerra nei Balcani in Bosnia arrivarono combattenti dagli Hezbollah libanesi, dall’Algeria e dall’Iran, pronti a vendicare i morti mussulmani. In poco tempo quell’area – che includeva Albania, Kosovo e Macedonia – si trasformò in una enclave di al-Qaeda.

L’organizzazione puntava alla ricreazione della mitologica “dorsale verde”, una sorta di califfato compreso tra la Bosnia e il Sangiaccato, la Macedonia e il Kosovo, fino all’Albania. Un territorio che può sfruttare i percorsi dei grandi traffici illeciti, alla periferia dell’Unione europea, aprendo canali utilizzati oggi dallo stato islamico.

L’attiva organizzazione di origine bosniaca scoperta negli Usa ripropone, dunque, con forza il pericolo di quel progetto. Per ora – secondo quanto trapela dalle carte dell’inchiesta – la Bosnia è utilizzata come serbatoio di combattenti e come appoggio logistico per far arrivare soldi e materiali in Iraq e Siria. L’arresto avvenuto lo scorso 3 settembre dell’imam Bilal Bosnic – in passato attivo anche in Italia, a Cremona, Pordenone e Bergano – ha mostrato come sia particolarmente fertile la Bosnia-Herzegovina per il reclutamento dei “foreign fighter”. E proprio qui meno di 48 ore fa la polizia è dovuta intervenire per rimuovere bandiere dell’Isis, che sventolavano nel piccolo villaggio di Gornja Maoca, nel nordest della Bosnia. Quel rancore, mai sopito, verso l’Onu e le coalizioni occidentali specializzate nella “esportazione della democrazia” ancora brucia. Ed è uno dei carburanti che potrebbe di nuovo esplodere. Alle porte dell’Europa.

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