Per comprendere bene la differenza tra i due volti dello Stato italiano nella stagione delle stragi del 1992-1993 bisognava essere ieri nell’aula bunker di Rebibbia e guardare in faccia l’ex capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria Adalberto Capriotti mentre rispondeva tra molte contraddizioni e amnesie alle domande dei pm di Caltanissetta, Domenico Gozzo e Stefano Luciani, e dell’avvocato di parte civile di Salvatore Borsellino, Fabio Repici. Capriotti ieri era sentito come testimone e ha sostanzialmente detto di avere accettato l’incarico di capo dell’Amministrazione Penitenziaria sulla soglia della pensione ma di non avere mai voluto sapere nulla della gestione dei 41 bis. Materia incandescente gestita dal suo vice Francesco Di Maggio e sottoposta alla decretazione del ministro di allora Giovanni Conso.

Durante la direzione del Dap di questo magistrato, ma senza la sua firma come ha tenuto a sottolineare, sono usciti dal regime di isolamento del 41 bis anche un paio di boss che facevano parte della Commissione provinciale di Palermo di Cosa Nostra. Il presidente Napolitano nella sua audizione davanti ai pm del processo ‘Trattativa’ ha detto che lo Stato dopo le stragi del 92-93 era saldo e fermo nella volontà di contrastare con il 41 bis Cosa Nostra. Capriotti ieri non ha dato questa impressione. Questo magistrato con i capelli imbiancati dai suoi 91 anni, è l’uomo al quale lo Stato si è affidato nel 1993 durante la stagione delle bombe di Cosa Nostra nel ‘Continente’, per dare una risposta alla mafia che sfidava le istituzioni. Come ha chiarito Giorgio Napolitano, lo Stato aveva chiarissimo il ricatto della mafia: Riina e compagni facevano saltare in aria basiliche e musei, uccidevano bambine e passanti, perché volevano concessioni sul regime carcerario. E lo Stato, dopo aver spedito al massacro Falcone e Borsellino, mostrando il suo volto duro, decise di mostrare ai boss reclusi (grazie al lavoro di Falcone e Borsellino) un volto diverso: quello di Adalberto Capriotti.

Lettera a Scalfaro

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Pochi mesi prima dell’inizio della stagione delle bombe al nord al presidente della Repubblica di allora, Oscar Luigi Scalfaro, giunse una lettera dei familiari dei detenuti al 41 bis stufi di fare lunghi viaggi da Palermo a Pianosa per portare la biancheria ai loro cari ma soprattutto stufi della linea dura del capo del Dap di allora, Nicolò Amato. È la stagione in cui i cappellani carcerari organizzano convegni e fanno campagne contro il 41 bis. Scalfaro convoca il capo dei cappellani carcerari, Monsignor Cesare Curioni e gli chiede di scegliere il nuovo capo del Dap. Curioni suggerisce un nome ma Scalfaro non lo vuole perché è troppo duro. Meglio Adalberto Capriotti, un tipo “tutta Chiesa” che dopo 22 giorni dall’insediamento, chiede al ministro di non prorogare subito i decreti in scadenza per una cinquantina di detenuti al 41 bis per dare “un segnale positivo di distensione”.

All’udienza del quarto processo per la strage di via D’Amelio tenuta a Roma con la Corte d’Assise di Caltanissetta in trasferta per sentire una serie di personaggi autorevoli (domani tocca a Luciano Violante e Nicolò Amato) ieri tutti attendevano la deposizione di Carlo Azeglio Ciampi e Giovanni Conso. Invece il Presidente del Consiglio e il ministro della Giustizia di allora non si sono presentati per ragioni di salute. Per illuminare la strage di via D’Amelio il processo si interessa anche della stagione delle tentate e riuscite stragi del 1993 a Roma, Firenze e Milano. La deposizione di Capriotti ieri si è fatta interessante quando ha preso la parola l’avvocato Fabio Repici. Il legale di Salvatore Borsellino ha chiesto a Capriotti se avesse letto la lettera dei familiari dei detenuti (nella quale l’estensore anonimo dava del ‘dittatore’ al suo predecessore Amato, prima di scusarsi per “l’arroganza” usata contro il capo dello Stato) l’ex capo del DAP ha risposto in modo sorprendente: “era uno scritto anonimo come fatto dai familiari scritto molto bene e in maniera precisa”. La lettera è scomparsa dagli archivi del Quirinale ed è divenuta di pubblico dominio nel 2011, quando il magistrato Sebastiano Ardita l’ha pubblicata nel libro “Ricatto allo Stato”. Capriotti ha ammesso ieri di averla vista allora al Dap: “La vidi così di sfuggita quando ero già direttore del Dap. Tra le carte c’era anche questo. Ricordo che era un breve scritto”. All’avvocato Repici che chiede: “la lettera aveva un carattere particolarmente duro e drastico nei toni?”. Capriotti replica: “No, assolutamente no. Faceva rilevare questa pesantezza anche nei confronti del familiare che non era detenuto e naturalmente furono presi dei provvedimenti perché anche dopo questo scritto venne… questi detenuti non furono più spostati dando loro un certo fastidio ma soprattutto ai loro familiari che volevano ma si fece un provvedimento speciale per fare queste videoconferenze in modo che i familiari quando era il loro turno potevano trovarli in questo istituto”.

A prescindere dalla vaghezza del ricordo è molto interessante quello che Capriotti ieri ha ammesso davanti alla Corte: la lettera non fu cestinata, ma ebbe un seguito e (anche se sembra poco chiaro il riferimento alle videoconferenze) qualcosa lo Stato fece per andare incontro alle richieste dei parenti dei detenuti. L’ennesima dimostrazione che nel muro contro muro tra mafia e Stato in quegli anni il muro stava da una parte sola.

Da Il Fatto Quotidiano dell’11 novembre 2014

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