“Ecco i punti imprescindibili per arrivare alla verità”: i familiari delle vittime della tragedia del Moby Prince hanno scritto al comitato ristretto della commissione Lavori pubblici del Senato che ha il compito di unire le tre proposte di costituzione di una commissione d’inchiesta sulla sciagura di Livorno del 10 aprile 1991 (140 morti tra passeggeri ed equipaggio, un solo superstite). Il documento, firmato da Loris Rispoli e Angelo Chessa, che rappresentano le due associazioni dei parenti delle vittime, ai tre senatori che formano il comitato (Marco Filippi, Pd, Sara Paglini, M5s, e Alessia Petraglia, Sel) gli aspetti del disastro senza i quali senza i quali si “rischia di inficiare” il senso stesso della commissione d’inchiesta che dovrà nascere. Dopo l’intesa tra i partiti su una commissione d’inchiesta monocamerale e la denuncia di quelle “lobby che ancora oggi premono perché su questa vicenda cali il silenzio” espressa da Rispoli in una lettera ai presidenti di Camera e Senato e riconosciuta nella revisione del testo operata dal Pd  i familiari delle vittime credono di essere ora arrivati ad una sintesi tra le proprie necessità e le pregiudiziali espresse da Filippi sul limite di tempo dell’inchiesta (2 anni), del budget e soprattutto una definizione dell’oggetto delle indagini che non “ampli a dismisura l’ambito dell’indagine”.

Rispoli e Chessa tracciano un percorso di indagine circoscritto, dove il ricorso alle consulenze esterne (capaci di far lievitare il budget di spesa) è limitato soprattutto al riesame dei dati medico legali sui tempi di sopravvivenza di chi si trovava a bordo del Moby Prince e l’indicazione precisa dei destinatari di quesiti finora senza risposta razionalizza i tempi dell’inchiesta. “La ricerca che, da liberi cittadini, abbiamo realizzato coi nostri consulenti si è fermata davanti a limiti inevitabili che la Commissione può valicare – sostiene Chessa – avendo questa il potere dell’autorità giudiziaria e il peso politico di essere interlocutore istituzionale”. Il riferimento va all’acquisizione di documentazione inedita prodotta dalle imbarcazioni militari e militarizzate americane presenti in rada la notte dell’incidente – tra le quali vengono indicate anche le due scoperte da ilfattoquotidiano.it e conservata negli archivi Nato di Bruxelles. Secondo i familiari per capire l’esatta dinamica della collisione non serve tornare a realizzare costose consulenze tecniche deduttive, ma acquisire documenti oggettivi, tra i quali indicano gli accordi assicurativi raggiunti tra gli armatori Snam (oggi Eni) e Navarma (oggi Moby) a ridosso dell’evento.

Tra gli accertamenti richiesti dai familiari è citata anche la verifica dell’ipotesi “espressa dai consulenti tecnici della Procura di Livorno, Rosati e Borsa, nel 2009, in merito alla nuvola biancastra che avvolse l’Agip Abruzzo prima della collisione”. I consulenti indicarono infatti la tanto dibattuta “nebbia” – causa prima dell’incidente secondo la magistratura – quale effetto di un incidente all’impianto caldaie della petroliera, mai accertato in passato. Tuttavia la Procura di Livorno non li prese in considerazione e archiviò, fidandosi della risposta non richiesta di un altro “ctu”, Andrea Gennaro, il cui presunto conflitto d’interessi non ha scandalizzato il ministro della Giustizia Andrea Orlando, sollecitato a riguardo dai senatori Pd, Luigi Manconi e Silvio Lai.

I familiari delle vittime propongono anche la riformulazione dei quesiti relativi alle condizioni in cui viaggiava il traghetto Moby e alle fasi di soccorso. Per accertare le prime riducono i tempi di indagine suggerendo di attingere alla documentazione disponibile e all’ascolto di tre testimoni specifici tra i quali l’allora direttore ufficio acquisiti di Navarma, Florio Pacini, l’ispettore tecnico di allora Giuseppe Starace, mai sentito dalla magistratura, e l’armatore Vincenzo Onorato. Quanto ai soccorsi le associazioni chiedono invece una semplice ricostruzione cronologica delle operazioni realizzate la notte della strage dalla Capitaneria di porto di Livorno, con verifica puntuale delle “responsabilità e motivazioni delle scelte operate dall’allora comandante, Sergio Albanese”, sopraggiunto sulla scena mezz’ora dopo la collisione e limitatosi a “seguire via radio l’evolversi degli eventi” senza mai intervenire perché, sostenne all’epoca, “le operazioni si stavano sviluppando secondo le previsioni del piano locale di soccorso”. Senza il suo comando in mare.

La proposta presentata da Rispoli e Chessa al comitato ristretto della commissione è l’ultimo sforzo dopo 23 anni di battaglie. Un modo per agevolare la politica nel bisogno di trovare un compromesso tra accertamento della verità sulla strage e pregiudiziali manifestate dal principale gruppo parlamentare proponente, il Partito Democratico. “Abbiamo fatto tre quarti del lavoro – dice Angelo Chessa – chiediamo alla politica di concludere l’ultimo quarto”.

Del resto il gioco al ribasso sull’inchiesta parlamentare Moby Prince dovrebbe destare stupore e indignazione, se si considera che lo Stato, da 23 anni, ha risposto ai quesiti sul più grande disastro della marina mercantile italiana dal dopoguerra e la più grande strage sul lavoro, con errori procedurali, sentenze assolutorie, archiviazioni (l’ultima nel 2010) e clamorose dimenticanze a livello politico, ultima la mancata inclusione della sciagura di Livorno tra quelle interessate alla desecretazioni degli atti. Per il tramite dell’accertamento di una verità oggettiva su quanto accaduto, la commissione d’inchiesta potrebbe finalmente convincere il Parlamento ad apprendere la lezione del Moby Prince: una lezione impartita in 23 anni di storia, e mai raccolta, se si pensa alle deficienze del nostro codice rispetto a sistemi di certificazione e accertamento delle condizioni di sicurezza della navigazione, prescrizione dei reati e mancata tutela delle vittime di disastri di questo genere: la cosiddetta legge Viareggio – che fissa dei limiti al risarcimento per sostenere la costituzione delle parti civili –  è infatti un provvedimento puntuale per l’evento e non una norma estesa a tutti i casi analoghi. Ivanna Porta, che nella strage del 1991 ha perso marito e unica figlia, dice: “Dopo 23 anni non mi aspetto più giustizia, ma voglio sapere la verità”.

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