Fanno parte dei Çarşi, storico gruppo ultras che anima lo stadio Inonu, e sono accusati di eversione. Un anno fa in piazza Taksim furono in prima linea, secondo i magistrati “con l’obiettivo di rovesciare il governo”. Le proteste iniziarono il 28 maggio 2013 per evitare che il vicino parco Gezi fosse trasformato in un centro commerciale. Da Istanbul infiammarono le altre città turche e si trasformarono in condanna alle politiche autoritarie di Tayyip Erdogan. Il bilancio ufficiale di due mesi di scontri tra i manifestanti e la polizia fu di nove morti e oltre 8 mila feriti. Secondo Amnesty International il governo di Ankara si rese protagonista di una “violazione su vasta scala dei diritti umani”. 

Una delle immagini simbolo di quei giorni immortalava tre ragazzi abbracciati su un muretto, di spalle, con le magliette di Besiktas, Fenerbache e GalatasarayProtagonisti di feroci faide in passato, frange degli ultras del tre club di Istanbul si erano ritrovati assieme in piazza. Il loro ruolo fu fondamentale nell’organizzazione della contestazione e nei corpo a corpo con gli agenti. I più scatenati, riportarono le cronache, furono i bianconeri. I Çarşi devono il loro nome a un mercato del distretto di Besiktas, dove sono soliti ritrovarsi sin dagli anni ’80. Sono famosi per le loro coreografie e per l’ideologia anarchica e comunista di numerosi componenti. L’anima antagonista è espressa nello striscione “Çarşi è contro tutti” che li inquadra sulle gradinate. Per mesi, nel corso della scorsa stagione, da lì è partito il coro “Taksim è ovunque, ovunque è resistenza”. Il governo non è riuscito a zittirli nonostante il massiccio ricorso a misure repressive. 

Le prese di posizione e il loro impegno durante le contestazioni ora potrebbero però costargli caro. La tesi del procuratore Adem Meral è che i 35 tifosi alla sbarra non fossero in realtà interessati alle manifestazioni popolari, ma tentassero di sfruttare l’occasione per un’azione di forza. A questo scopo avrebbero persino studiato un piano per la cattura dell’allora primo ministro Erdogan all’interno dei suoi uffici. Nelle 38 pagine della relazione sono trascritte telefonate tra i tifosi e allegate le foto delle bombe carta e della maschere antigas trovate in casa di Erol Ozdil, uno dei leader Çarşi. Erdogan, forte della recente elezione a presidente della Repubblica, ha sempre sostenuto la tesi del complotto di un gruppo di estremisti. Tra le sue prime premure, un anno fa, ci fu quella di smentire il parallelo con i fatti di piazza Tahrir. “Non è in corso nessuna Primavera turca” disse. Ma le similitudini con l’Egitto esistono eccome. L’ultima in ordine di tempo riguarda gli ultras e il processo che sono chiamati a affrontare.  

Al Cairo i tifosi ebbero un ruolo significativo nella rivolta che portò alle dimissioni di Hosni Mubarak. Poi arrivò il 1 febbraio 2012: 74 persone furono uccise allo stadio di Port Said, nel nord del paese, durante un’invasione di campo. Le vittime erano quasi tutti tifosi dell’Al Alhy, la strage fu interpretata come una reazione dei sostenitori rimasti fedeli al regime e di alcuni settori della polizia. Il caos in Egitto era destinato a durare, il campionato di calcio fu interrotto per oltre un anno. I successivi processi, che portarono a 21 condanne alla pena capitale, furono l’occasione per settimane di violenza e nuove morti. Il presidente turco Erdogan continua a negare le analogie, ma 35 ultras condannati all’ergastolo difficilmente saranno incassati senza reazioni.

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