Il giorno del suo arresto, il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni non parlò, affidandosi a una dichiarazione dei suoi legali, già entrata nella leggenda: “La difesa del professor Orsoni esprime preoccupazione per l’iniziativa assunta (dai magistrati, ndr) e confida in un tempestivo chiarimento…Le circostanze contestate paiono poco credibili: gli si attribuiscono condotte non compatibili col suo ruolo e il suo stile di vita. Le accuse vengono da soggetti già sottoposti a indagini, nei confronti dei quali verranno assunte le dovute iniziative”.

Cioè: Orsoni è innocente; non ha mai visto uno solo dei 560 mila euro di finanziamenti illeciti dal pubblico Consorzio Venezia Nuova (concessionario del Mose e dominus di tutti gli appalti); e ad accusarlo sono un branco di delinquenti che verranno denunciati per calunnia. Del resto, prim’ancora che parlassero i difensori, era sceso in campo l’avvocato d’ufficio Piero Fassino, sindaco di Torino e presidente dell’Anci, noto per il fiuto da rabdomante: “Chiunque conosca Giorgio Orsoni e la sua storia personale e professionale non può dubitare della sua correttezza e onestà”.

Tre giorni dopo Orsoni apparve dinanzi al Gip per l’interrogatorio di garanzia e lì – assicurarono i legali – rilasciò “dichiarazioni molto lucide, tranquille e serene con le quali ha dichiarato che non riconosce alcun addebito di responsabilità e si propone di dimostrarlo attraverso indagini difensive e integrazioni della documentazione della Procura”. Dopodichè, oplà: nel breve volgere di un paio di giorni, il sindaco estraneo e sereno, anzi Serenissimo, rinuncia alle indagini difensive e anche alle integrazioni, confessa il finanziamento illecito e chiede alla Procura di patteggiare una pena di 4 mesi di reclusione e 15 mila euro di multa in cambio della scarcerazione e della revoca della sospensione dalla carica in base alla legge Severino.

Così torna a fare il sindaco, perché Venezia ha ancora tanto bisogno di lui. La sua tesi è che, sì, a pensarci bene, quei soldi illeciti per diventare sindaco li ha ricevuti, ma obtorto collo, perché costretto dal Pd (al quale non è neppure iscritto): “E ’ stata una campagna elettorale ‘chiavi in mano’, io facevo quello che diceva il Pd: vennero da me tre esponenti del partito per chiedermi di rivolgermi agli ‘sponsor’ per avere contributi, perché Brunetta aveva tanti soldi”. I soldi arrivarono, ma non a lui: al Pd per la sua campagna elettorale, e lui non poteva certo sospettare che fossero illeciti. In fondo come può un umile avvocato, giurista e docente di Diritto amministrativo sapere che la legge proibisce alle società pubbliche o miste (tipo il consorzio Venezia Nuova) di finanziare i partiti, e che i finanziamenti leciti da imprese private vanno rendicontati sia da chi li eroga sia da chi li riceve?

Se insegnasse logica, saprebbe almeno che la versione A “sono estraneo, non ho mai visto un euro” è lievemente incompatibile con la versione B “il partito mi costrinse a chiedere quei soldi”, a sua volta leggermente in contrasto con la versione C “i soldi andarono al partito a mia insaputa”. Ma lui insegna Diritto e non è tenuto alla logica. Resta da capire perchè mai un professore così corretto, un amministratore così ignaro, per giunta sereno anzi Serenissimo, munito financo del certificato di onestà e correttezza rilasciato da Fassino in persona, abbia deciso di patteggiare una pena detentiva per aver violato la legge. Ma il bello viene ora che torna a fare il sindaco. Renzi, quello del Daspo e dei calci nel sedere ai ladri, non può espellerlo dal Pd perché non è iscritto al Pd. Però potrebbe farlo sfiduciare dal Pd, visto che ha confessato un reato: a meno che il premier non attenda che il Gip approvi la pena concordata da Orsoni con i pm o che Orsoni ricorra in Cassazione contro il suo patteggiamento (si può fare anche questo, in Italia). Intanto magari Fassino ci spiegherà che nessuno, anche se ha confessato e patteggiato, “può dubitare della correttezza e onestà” di Orsoni. Del resto a Greganti, tre volte arrestato e tre condannato, il Pd torinese aveva ridato la tessera, ad honorem. Cose che càpitano nel paese dove tutti respingono ogni addebito, ma accettano ogni accredito.

il Fatto Quotidiano, 13 Giugno 2014

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