Avrebbe movimentato denaro e cercato di occultare documenti utilizzando un cellulare. Per questo Giovanni Berneschi, ex presidente Carige finito ai domiciliari il 22 maggio, è stato portato in carcere. La richiesta dei pubblici ministeri al gip è stata motivata proprio con la possibilità di inquinamento delle prove e il provvedimento, che sostituisce gli arresti domiciliari, è stato disposto dagli inquirenti perché l’ex banchiere ha violato il divieto di contatti esterni al di fuori dell’ambito familiare. 

La notizia è emersa a valle di alcune perquisizioni a casa di Berneschi, e “in altri luoghi di pertinenza delle indagini” nell’ambito dell’inchiesta per associazione a delinquere finalizzata alla truffa e riciclaggio che oltre a Berneschi coinvolge altre sei persone. Tutto questo mentre l’indagato stava rispondendo alle domande del giudice per le indagini preliminari Adriana Petri durante l’interrogatorio di garanzia. Nel corso del quale l’ex vice presidente Abi si è riservato di rispondere “in altra sede” ai pubblici ministeri. Berneschi “ha fornito informazioni utili a chiarire la sua posizione – ha detto l’avvocato Maurizio Anglesio, difensore dell’ex numero uno di Carige – e ha dato la propria disponibilità ai magistrati per dare tutte le spiegazioni necessarie”.

Intanto i magistrati dell’antimafia, Giuseppe Curcio della Direzione nazionale e Francesco Lombardo della Dda di Reggio Calabria titolari dell’inchiesta su Claudio Scajola, hanno incontrato i pm di Genova Nicola Piacente e Silvio Franz, che si occupano delle indagini sull’istituto ligure. Cosa unisca le due inchieste per ora è solo una ipotesi. Scontato, e a quanto sembra scartato, l’approccio con il ramo scajoliano all’interno dell’ex cda di Banca Carige (il fratello dell’ex ministro, Alessandro Scajola, è stato dal 2001 vicepresidente e membro del comitato esecutivo della Carige), saltano agli occhi le ‘evidenze’ sottolineate anche dagli ispettori di Bankitalia nel rapporto 2013 sui prestiti facili a società che sono in qualche modo riconducibili proprio a Scajola.  L’altra ipotesi è che tra le carte che i magistrati calabresi hanno guardato assieme agli uomini della Dia c’era anche qualche ‘pizzino’ che potrebbe interessare i magistrati genovesi. L’incontro “di natura esplorativa, una prima presa di contatto per un successivo scambio di informazioni” potrebbe arricchire le due indagini.

Tra le poche certezze c’è che in tutto questo la Fondazione Carige è rimasta col cerino in mano. L’ente primo azionista della banca genovese (una quota rilevante è stata data in pegno a Mediobanca) ha chiuso il 2013 con un rosso di 926 milioni di euro, in buona misura a causa proprio delle perdite derivanti dalla svalutazione delle azioni in carico di Banca Carige, scese dal valore unitario iscritto in bilancio di 1,35 euro alla più verosimile somma di 0,43 euro che significa un taglio del 70 per cento che, tradotto in soldoni, significa una perdita di valore di oltre 900 milioni. Con impatto diretto sul patrimonio dell’ente che è così sceso da oltre un miliardo di euro ad appena una novantina di milioni.

Attualmente la Fondazione registra poi 200 milioni di debiti che andranno compensati con i proventi delle recenti cessioni azionarie (complessivamente 150 milioni di euro), come indicato dal ministero del Tesoro. Nei mesi scorsi, però, non sono pervenute offerte o manifestazioni parte di imprenditori liguri per acquisire quote del capitale della banca che nell’ultima operazione del 20 maggio scorso è stato ceduto sul mercato professionale in quantità (11% contro l’atteso 15%) e a prezzi inferiori alle previsioni (95,2 milioni l’incasso contro gli attesi 163).

E così l’ente, che ha un’autorizzazione del Tesoro per scendere fino al 19% ma finora è riuscita a passare “solo” dal 46,6% del 2012 all’attuale 29,85% (incluso il 6,971% in pegno a Mediobanca) sta cercando un partner a cui piazzare un’ulteriore 10% prima dell’avvio dell’aumento di capitale da 800 milioni della banca, atteso a metà giugno. Sulla cessione della quota non si registrano però grandi passi in avanti. L’offerta delle azioni ad alcune fondazioni non sarebbe andata a buon fine per le ristrettezze in cui versano gli altri enti. “Ci sono difficoltà sia perché la situazione è complicata dalle indagini sia perché ci stiamo avvicinando all’aumento di capitale”, ha ammesso il presidente della Fondazione, Paolo Momigliano. La strategia di vendere, però, non cambia: “il Mef ha ribadito che dobbiamo rispettare il programma per traguardare il pagamento dei debiti“.

La Fondazione ha inoltre avviato una due diligence sull’operato dei precedenti organi sociali di gestione dell’ente per verificare se si siano avuto i presupposti per eventuali azioni di responsabilità nei confronti dei precedenti organi della Fondazione stessa. Per quanto riguarda la banca, la Fondazione ha dato incarico a dei consulenti per un monitoraggio sull’operato del precedente management della banca per verificare se questo avesse comportato un pregiudizio al patrimonio della Fondazione. Secondo quanto risulta da fonti di ambienti finanziari, però, nonostante le azioni giudiziarie in corso, la decisione della Fondazione di intraprendere un’azione di responsabilità nei confronti dei precedenti organi della banca sarebbe subordinata a un’azione della banca stessa. “E’ un faro acceso, se dovessero emergere comportamenti che hanno provocato danni si valuteranno eventuali azioni”, ha detto Momigliano. Ai raggi X, oltre agli altri danni subiti dalla gestione della banca, finirà l’operazione con lo Ior, a cui la fondazione aveva ceduto i diritti di opzione per la sottoscrizione di un prestito convertibile di Banca Carige.

 

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