Una bella pubblicità del primo Macintosh della Apple (1984) raffigurava Karl Marx che tenendo sotto braccio uno dei nuovi prodotti ideati da Steve Jobs, innocentemente ne decantava le virtù con la frase: «la prima volta che un capitalista ha fatto una rivoluzione!», ma si era sopravvalutato.

Il capitalismo nella sua essenza è rivoluzionario, ce ne siamo dimenticati. In effetti quanto c’è di buono nel capitalismo (che non è il Paradiso terrestre come i suoi nemici vorrebbero farci credere) è legato esclusivamente alla sua funzione eversiva. Joseph Schumpeter – le cui propensioni per il gentil sesso, la vita da dandy e la teoria economica erano pari solo alla sua avversione per il marxismo – ha cercato di dirlo in lungo e in largo. Spiegando che l’innovazione è indispensabile per lo sviluppo economico, che la distruzione creatrice è l’atto fondamentale dell’imprenditore, che due cose vecchie rinnovate non ne fanno una nuova. Ha perfino profetizzato che il capitalismo se dovesse morire sarà per mano dei burocrati e dei managers, non per mano dei bolscevichi. Tutto inutile, non so se sia stata colpa di qualche «toga rossa», ma molti si sono convinti che il capitalismo sia solo un sistema per consentire di fare soldi a chi la ha già, un giochino fondamentalmente conservatore, basato sul mantenimento dei privilegi e delle posizioni date.

Invece no, difatti c’è il capitalismo di Confindustria e quello di Schumpeter. C’è il capitalismo che per la prima volta nella storia dell’umanità ha offerto straordinarie possibilità di affermazione a chi aveva voglia di rischiare e di cambiare la sua vita e c’è quello di Mediobanca, che istituzionalmente per molti decenni si è adoperata perché non sorgessero nuovi imprenditori in Italia. C’è il capitalismo di Stephenson, Bessemer, Carnegie, Tesla, Gaetano Marzotto e Adriano Olivetti, uomini che in alcuni casi hanno anche portato a casa valanghe di denaro, ma hanno rivoluzionato il nostro modo di vivere; poi il c’è il capitalismo dei Rockfeller (J.D.), di Thomas Edison, di Ken Lay, di Bernie Madoff, di Sandy Weill, di Calisto Tanzi e di Gianpiero Fiorani, tutte persone degnissime che però hanno utilizzato le grandi opportunità del sistema capitalistico al massimo per arricchire se stessi e i propri parenti. C’è il capitalismo che ha elevato straordinariamente le condizioni di vita di gran parte delle popolazioni che ha raggiunto (Sabin) e c’è il capitalismo che ha sfruttato e sfrutta milioni di persone in ogni parte del globo. C’è il capitalismo di Steve Jobs e quello delle compagnie telefoniche mondiali, quello di Cucinelli e quello dei giganti dell’abbigliamento prodotto in Bangladesh. Non c’è un capitalismo buono e un capitalismo cattivo, c’è solo un capitalismo che sceglie le scorciatoie e non produce benessere per la società e un altro che accetta la strada difficile, ma cambia in meglio la vita di tutti (e fa più profitti). Quest’ultimo deve essere favorito dalle istituzioni, dell’altro possiamo farne tranquillamente a meno.

Invece è passata l’idea contraria, l’equazione capitalismo = profitti, una specie di capitalismo «basta che respiri» (scusate la rozzezza della metafora, serve a rendere l’idea della volgarità di questo capitalismo). Così il capitalismo innovativo è uscito dalla coscienza delle persone ed è sempre più raro nelle fabbriche. E ci spacciano per innovazione, ciò che è solamente un sistema per spillare soldi chiamandole startup. Il capitalismo che abbiamo sotto gli occhi è quello dei managers e dello spostamento a somma zero dei fattori dati, un capitalismo ignorante, modello «calano i profitti, quindi si licenzia»; un sistema senza cuore e senz’anima, senza sogni e senza speranze. Un’economia nemica del capitalismo, che appunto ci ha portati dove siamo.

L’Italia certamente non è la Germania, dove come sosteneva Lenin non avrebbe mai potuto esserci una rivoluzione «perchè i tedeschi per assaltare un treno devono prima pagare il biglietto», ma noi, anche se i biglietti tendiamo a non pagarli, facciamo ancora più fatica a fare le rivoluzioni. Tutti sanno che la nostra specialità è il cambiamento apparente. Così un governo che non sappia e non voglia fare riforme, come purtroppo per vari motivi è l’attuale, non potrà che portarci più a fondo nel baratro in cui già ci troviamo. Qui se non restituiamo all’economia il suo fine naturale di cambiare, innovare e saper creare il molto dal poco non c’è solo il rischio che la profezia di Schumpeter si avveri. C’è il rischio molto più grave che quel processo, che bene o male ha rivoluzionato il tenore di vita degli italiani negli ultimi centocinquanta anni, si fermi e si sclerotizzi in una mummificazione finanziaria.

P.s: Mentre completo queste poche righe, apprendo che il Ministro Saccomanni ha solennemente dichiarato che la recessione è finita. C’è da chiedersi, perché non la piantino con queste sparate da maghi del tempo,  che suonano come le profezie della mia vicina di casa che all’ombra di 37° continua a dire che domani arriverà il fresco. «You don’t need a weatherman to know which way the wind blows» B. Dylan, Subterrenean Homesick Blues, 1965.

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