Due anni dopo l’inizio della rivolta e nonostante la promessa di avviare riforme nel campo dei diritti umani, come sollecitato dalla Commissione indipendente d’inchiesta nominata dal governo nel giugno 2011, le autorità del Bahrain continuano a reprimere senza pietà la libertà d’espressione.

Il 15 maggio scorso sei uomini sono stati condannati a un anno di carcere per presunte offese al re via Twitter.

I giudici si sono riferiti all’articolo 214 del codice penale, che punisce “l’offesa all’emiro del paese, alla bandiera e all’emblema della nazione”.

Gli è andata persino  bene. L’Assemblea nazionale, il parlamento del piccolo emirato del Golfo persico che è partner strategico di Gran Bretagna e Usa, sta esaminando un disegno di legge del governo che modifica l’articolo 214 introducendo pesanti multe e aumentando la pena detentiva fino a cinque anni.

All’esame dell’Assemblea nazionale c’è anche un secondo emendamento, alla Legge sulle riunioni pubbliche, le processioni e i raduni. Se approvato, chi organizza una manifestazione dovrà versare una garanzia di 20.000 dinari (oltre 41.000 euro) e avrà l’onere di avvisare chi risiede nella zona dove è prevista l’iniziativa. Ovviamente, alle autorità resterà il potere di negare l’autorizzazione.

Dall’inizio della rivolta, il bilancio delle violazioni dei diritti umani è pesante: i manifestanti uccisi dalle forze di sicurezza sono almeno 80, ancora di più i casi di tortura e 13 i leader del dissenso e dell’attivismo per i diritti umani in carcere.

 

 

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