Temo, sempre e molto, l’abuso dei termini. Temo sommamente la moda che accompagna una terminologia e che finisce, come sempre avviene, di occupare, con la forza di ossessiva ripetizione, ogni angolo del nostro agire e del nostro pensare.

Il termine società civile è uno di questi: portatrice di un gene sano fatto di partecipazione e idealità, la società civile si è diffusa impollinando giornali e coscienze. Poco importa se parte di questa società civile è composta talvolta da vecchi arnesi della politica e, spessissimo, da un establishment che ha sempre civettato con il potere.

Esiste e, necessariamente, è infallibile. Bilancia quella parte malata ( grave ) rappresentata dalla politica ma, a mio modesto avviso, senza essere capace di utilizzare un paradigma altro o diverso da quello della politica. Alla fin fine anche la società civile rischia di scivolare verso una consuetudine che non allarga lo sguardo oltre il quinto grado di parentele o amicizie. Nel pentagramma delle relazioni umane quelle sono le note che danno vita alla musica. Che anche in questo caso, è musica di potenti. Le compagnie di giro, talvolta camuffate da società civile altre da informazione intelligente, in Italia si sprecano. Spesso se le cantano e se le suonano.

Plasmano concetti quali bene comune facendo in modo che questa importante locuzione diventi fruibile per tutte le circostanze e tutti i contesti: l’acqua ( cosa vera e seria ) ma anche una tangenziale, o un parcheggio sotterraneo periferico, una caserma dismessa o un grattacielo troppo alto.

E siccome tutto è diventato ormai bene comune, nulla è più mutabile. E siccome tutto è società civile, il localismo assume sembianze di globalismo facendoci combattere battaglie titaniche affinchè non si abbatta un albero ma dimenticando, al tempo stesso, che una stagione di diritti, di parità di diritti, e di pari opportunità è ferma da troppi anni.

A mio parere è su questo che si dovrebbe cimentare la società civile, se esiste.

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