“Ecco come nasce una canzone”. Gigi D’Alessio scende le scale della sua villa all’Olgiata, verso lo studio personale. Fiancheggia piscina e il giardino “Amorilandia”. Maxi tivù, felpe disegnate dal figlio, ‘filippini’ solerti (“Gli ho insegnato io a cucinare, mangiare è la cosa più bella della vita”). La statua gigante di Elvis (“Regalo della Bertè, non sapeva dove infilarla”). Postazioni computer tramite cui monitorare quanto le radio lo trasmettono (“MonteCarlo e Capital non mi considerano”). E la maglia dell’Argentina ’86. “Me l’ha data Diego. A Napoli ci sono tre divinità: San Gennaro, Maradona e D’Alessio”. L’intervista impossibile va avanti da cinque ore. Cominciata alle 13, finirà dopo le 19. Da una parte un giornale che lo ha ironicamente chiamato “Fonzie Gomorra”, dall’altra un 45enne sicuro di sé ma autoironico e piacevole. Nel mezzo, terrorizzata, l’addetta stampa: l’idea è sua. Gigi D’Alessio riceve messaggi (Cassano, Galliani), macina aneddoti e vendite. “Allegri mi mandò un sms nell’intervallo di Lecce-Milan. Dice che gli porto fortuna. Il Milan era sotto 3-0. Tornai a casa. Il Milan vinse 4-3”. Al piano, con dovizia gentile, mostra la genesi dei brani. Ritmica, melodia, testo. “Per spiegare tutto, devo cercare i giornali a me più teoricamente più distanti. Voi”.

Teoricamente?
“A volte penso di essere più comunista io di tanti altri”.

Poi però vota Berlusconi.
“Di politica capisco poco. Casini mi adora, Rutelli mi chiama ‘Gigetto’, Fini mi chiede di tenerlo sotto braccio così fa bella figura. A Bossi ho regalato una chitarra. I Ciampi – e Papa Wojtyla – l’incontro più bello. E la signora Bertinotti. E Orlando. E Santoro: in privato mi ha detto che mi stima. Dovevo salire su una torre per far scendere dei disoccupati, all’interno del suo programma”.

Ha suonato per Lettieri.
“Mio fratello Pietro aveva un tumore. La malattia che si è portata via i miei genitori. Mi è rimasta solo la sorella. Chiamai Berlusconi per avere i suoi medici. Era a un “G” non so cosa in Tunisia, mi aiutò in ogni modo. Poi, il mercoledì delle elezioni 2011, a mezzanotte mi telefona. Ero a casa con Anna (Tatangelo, NdA): ‘Gigi, sto nella merda’, aiutami’. Avrei suonato per lui anche mentre faceva il bidet. Un amico. Purtroppo Pietro, dopo un anno e mezzo di cure, è morto lo stesso”.

E a Milano?
“Rimasi in hotel fino alle 20. La Lega mi insultava, la sinistra mi minacciava. Sai che c’è, mi son detto? Andate tutti ‘affanculo. E son tornato a Napoli”.

De Magistris le piace?
“Si vende bene, è simpatico, bravo e vero, ma ha fatto poco. Gli avrei regalato Sanremo se avessi vinto, ma non credo sia interessato a incontrarmi”.

Saviano ha scritto che, mentre i boss decidevano chi ammazzare, ascoltavano la sua musica. E lei ha lavorato con Luigi Giuliano, ora collaboratore di giustizia.
“Era il ’92. Il mio collaboratore, Vincenzo D’Agostino, ritenne di sottoporre una canzone a Giuliano. Lui la lesse e impose di cambiare una parola. La cambiai. Fine del nostro unico incontro”.

Avviso di garanzia per concorso esterno in associazione mafiosa. Anno 2001.
“La mia fedina penale è pulitissima. Non c’era niente, durante l’incontro coi giudici il mio avvocato dormiva. In una intercettazione si diceva che dovevo ritirare i soldi. Sembravo un corriere, ma si parlava solo della paga per la mia esibizione a un matrimonio”.

Quindi ha suonato per la camorra?
“Dal ‘92 al ’96 facevo fino a 13 matrimoni al giorno. A Napoli le donne si sposano per scegliersi il cantante. Per la comunione di mia figlia chiamai Dalla, per mio figlio vorrei Pazzini. Ho suonato anche per qualche boss. Come Carosone, Cocciante, D’Angelo. Spesso non mi pagavano: un bacio e via. Alla camorra ho regalato un mucchio di canzoni: ero obbligato. Se dicevo ‘no’ chi mi proteggeva? Anche i giornalisti ci vanno. E al mattino ricevono il cachemire”.

Napoli è un microcosmo?
“Novantanove volte su 100 finisci scugnizzo. Vengo dai quartieri popolari, cresciuto dalla nonna. Quando entravo in casa, battevo forte i piedi per far scappare i topi. E niente doccia. Scendevi per strada e ti fottevano la cartella. Poi la bicicletta. Poi il motorino. Alla quarta diventavi scugnizzo. Alla delinquenza ho preferito la musica: dieci anni di conservatorio”.

Coi matrimoni quando ha chiuso?
“Nel 1996, concerto a Napoli. Attaccavo i manifesti di notte, camuffato: a Caianiello non mi conosceva già più nessuno, ma in città impazzivano. Affittai lo stadio e feci 40mila paganti. Lì è cambiato tutto. E nel 2000 mi sono trasferito a Roma. Senza più manager: ti fottono”.

Mariano Apicella lo conosce?
“Quello bravo era il padre, il figlio lasciamo perdere. Da Costanzo dissi per scherzo che le canzoni a Berlusconi era meglio se le scrivevo io. Devo a un povero posteggiatore la scelta della carriera solista. Mi chiamò per la comunione della figlia, aveva 2 milioni e 500mila lire in pezzi da mille. Tutti i suoi risparmi. Mi vergognai e cantai gratis”.

Ha picchiato dei fotografi.
“Erano appostati qua fuori, stavo da poco con Anna. Mi avvicino. Uno dei due, detto Er Millelire, si rivolge all’altro, detto Foggia: ‘Anvedi ‘sto napoletano der cazzo’. Non ci ho visto più e l’ho colpito. Gli si è aperta la fronte, sangue ovunque. Colpa dell’anello col rosario: vede, questo qua”.

La sua villa è lussuosissima.
“Dovevo invitarla al ristorante, così non scoprivate quanto sono ricco? Mica ho sgozzato i bambini e venduto gli organi. Finirò di pagarla tra 20 anni col mutuo. Non amo ostentare, ma il Rolex me lo sono fatto. E pure la Mercedes. Qualcuno penserà che i soldi me li ha dati la camorra, ma quanto cazzo è potente ‘sta camorra? Mi riempie i teatri pure in Australia?”.

A Sanremo, nella cover di Mia Martini, ha cantato malino.
“La mia musica fa cacare? Okay. Vi invito a un concerto: venite quando tenete la colite, così vi stimolo. E ‘cantare male’ è soggettivo: Vasco emoziona, ma tecnicamente non è un granché”.

Lei è un neomelodico.
“Il neomelodico non esiste. E’ una parola usata da un giornalista che amava Nino D’Angelo: il melodico era lui, i neomelodici tutti gli altri. Dire che sono il principe dei neomelodici è come dire che sono il primo degli stronzi. Non ho niente in comune con chi dedica le canzoni ai boss. Sarebbe come affermare che un giornalista del Fatto è uguale a uno di Bricabrac”.

Scrive solo d’amore.
“Non so fare altro. La parola più forte che ho usato è “carcere”. Sono un cantautore napoletano, mi esprimo in due lingue: l’italiano è quasi una lingua straniera”.

Ha regalato alla figlia di Gaber, Dalia, la Lambretta che Giorgio usò per La ballata del Cerutti.
“Dalia, che cura i miei rapporti stampa, era a tavola con me e il capo dell’azienda. Io: “Dalia, quest’uomo ti regalerà la Lambretta di tuo padre”. Non era previsto, l’aveva appena pagata 15mila euro all’asta, ma a quel punto non poteva rifiutarsi”.

Nella sua sala c’è il pianoforte di Carosone.
“E’ del 1974, per Renato ero l’unico che poteva suonarlo. Ricordo sua moglie ai funerali: ‘Gigi, la favola è finita’. Mogol rivede in me le capacità di Battisti, Dalla era un amico, Fossati parla benissimo di me. All’estero duetto con Liza Minnelli. Però io sono quello della camorra”.

Il più grande pregiudicato camorrista mai esistito nella storia della musica leggera italiana”: così Nonciclopedia.
“Molti mi augurano la morte, ma a chi scrive queste cose dico solo: ‘Perché?’. Se sostenessero che lei è gay e se lo fa mettere in quel posto da chiunque, sarebbe felice? Io mi sento così. E mi rode”.

E’ vera la storia su Umberto Bindi?
“Lessi che gli avevano pignorato tutto, anche il pianoforte. Ne fui colpito, così gliene mandai uno. Mi ringraziò, commosso. Quattro giorni dopo morì”.

Cosa cantò per Clinton?
Malafemmina: ‘Mister President, this is Bad Woman’. Era il periodo di quella lì, ci stava bene”.

Il Fatto lo legge?
“No, ma mi sta simpatico Travaglio. Noi napoletani siamo esigenti. Siani è un amico, ma non rido mai. Travaglio mi fa ridere. Non per ciò che dice: per lo sguardo, per i silenzi. E’ il Troisi del nord”.

Di quella canzone nata in un’ora, che ha salvato sul desktop col nome “Il Fatto”, che ne farà?
“Ci lavorerò, è buona. Poi ve la regalo e i proventi li diamo in beneficenza”.

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