Adesso che abbiamo appurato che in Lombardia e nel Nord la mafia c’è – e ci sono voluti decenni di allarmi inascoltati – è venuto il momento di conoscerla. Di persona, sul campo. E’ il lavoro che fa Marta Chiavari, giornalista televisiva che ha firmato diverse belle inchieste sul tema per Exit di La7, nel libro La quinta mafia. Come e perché la mafia al Nord oggi è fatta anche da uomini del Nord (Ponte alle Grazie, 14 euro). Il libro parte dagli atti giudiziari delle ormai innumerevoli indagini, ma fa tanti passi in più sulle strade dell’hinterland milanese, della Brianza, del Pavese.

Maurizio Luraghi, lombardissimo imprenditore edile condannato in secondo grado per associazione mafiosa insieme alle nuove leve del clan di ‘ndrangheta Barbaro-Papalia, accompagna la giornalista alla scoperta dei buchi neri dove i “padroncini” al servizio dei boss calabresi rubano terra e seppeliscono veleni, al margine di autostrade trafficate. L’ingegner Agostino Augusto, attualmente testimone sotto protezione, racconta come può capitare di vedersi sfilare l’azienda dai boss che gestiscono le estorsioni e l’usura nel varesotto. Mentre amici e conoscenti di Antonino Belnome, giovane capo diventato recentemente collaboratore di giustizia, ricostruiscono la parabola di un giovane calabrese risucchiato dal richiamo della ‘ndrangheta, che diventa padrino e killer pur essendo nato e cresiuto a Giussano, nel cuore della Brianza.

E così via, in una galleria di vittime e carnefici che passa davanti al lettore come un film, il film che smonta decenni di luoghi comuni sulla Lombardia (e il nord in genere). Il Nord “immune” dall’attacco mafioso, forte di chissà quali “anticorpi”, dove tutt’al più ci sono “i colletti bianchi” che riciclano i soldi sporchi, “non certo i picciotti che minacciano e sparano”. “La quinta mafia” è appunto la mafia lombarda, che ha peculiarità proprie, come le altre con cui abbiamo maggiore dimestichezza: Cosa nostra, ‘ndrangheta, camorra, Sacra corona unita. La criminalità calabrese è largamente dominante, ma a differenza dei quanto accade nella terra d’origine, condivide il territorio con i rappresentanti delle altre organizzazioni.

E soprattutto, la Quinta mafia ha sviluppato un modo tutto nuovo di stringere rapporti con la società “pulite”, con gli imprenditori, i commercianti, le banche, i politici, gli uomini delle istituzioni, in un contesto culturale lontanissimo dalla Locride, da Gela, da Scampia… Il metodo funziona, perché i mafiosi “nordici” raccontati da Marta Chiavari sono perfettamente integrati nell’economia e nella politica del loro territorio, e non di rado sono perfettamente conosciuti dai loro concittadini, quanto meno come persone con le quali è meglio non creare problemi. O con le quali scendere a patti quando si profila una convenienza (spesso apparente e foriera di grossi guai).

E’ il sistema raccontato, per esempio, da uno spacciatore di cocaina, nordico anche lui, che per anni ha “prestato servizio” sotto il boss della ‘ndrangheta brianzola Rocco Cristello, falciato dai proiettili nel 2008 mentre rincasava, a Verano Brianza. Ecco alcuni brani del racconto, tratto da La quinta mafia. Il libro viene presentato a Milano il 16 novembre alle 18, alla libreria Coop Statale di via Festa del Perdono 12, con l’autrice, la giornalista Ilaria D’Amico e il gip Giuseppe Gennari, che ha seguito le principali inchieste antimafia condotte nel capoluogo lombardo.

IL RACCONTO DI UNO SPACCIATORE DELLA ‘NDRANGHETA LOMBARDA

A qualche chilometro di distanza, in un altro bar, mi aspetta una persona. È disposta a raccontarmi come funziona il giro della droga in zona. Non dal punto di vista di chi la usa, ma da quello di chi la spaccia massicciamente da anni: la ’Ndrangheta. È seduto al tavolino, ma appena mi vede si alza per ve­nirmi incontro. Ci salutiamo, lui mi offre un caffè, poi paghiamo e usciamo. È una persona molto gentile, di quelle che ti aprono lo sportello della macchina, per intenderci. Sorride e fa continuamente battute, il che rende tutto più semplice. Comunque di lui dirò molto poco, per evitare che qualcuno possa riconoscerlo. Posso dire però perché ha acconsentito a parlarmi.
«Innanzitutto, io non ho mai sgarrato, e quindi loro non hanno niente da recriminarmi. Poi a un certo punto ho de­ciso di smettere, e anche lì l’ho fatto senza sgarri, seguendo tutte le regole precise, ed è andato tutto bene. E poi sono an­che un po’ nauseato a questo punto della vita, e comunque non le farò certo i nomi, e poi senta, non mi faccia troppe domande sul perché parlo, se no cambio anche idea!».

Mentre lo ascolto parlare, sento qualche cosa che stride. Gli domando da dove proviene.
«Brianza felix!».
«Un lombardo doc che usa la parola sgarrare?».
«E cosa devi fare? Ci sono loro e ci siamo adeguati… Senta, ma lei non voleva sapere di Antonino Belnome?».
Sorride sempre con gentilezza, ma la direzione del di­scorso la decide lui, per ora. Comunque confermo, voglio sapere di Belnome.
«E allora bisogna cominciare da Rocco Cristello, che è molto più importante. Lo vuole conoscere?».
Rocco Cristello è stato il potente capo del locale di ’Ndrangheta di Seregno. Tra le sue attività principali c’erano le estorsioni, l’usura e il traffico di cocaina. È stato ucciso il 27 marzo del 2008, sotto casa sua, con venti colpi di pistola.
«Ma Rocco Cristello non è morto?» domando.
«Eh, infatti. Se vuole la porto al cimitero, perché anche da lì si capiscono tante cose».

Saliamo in macchina e andiamo verso il camposanto di Ca­biate. Entrando sulla sinistra c’è un vialetto di ciottoli bian­chi. Lo percorriamo. Poco più avanti, sulla destra, eccola. Un’enorme lapide in marmo grigio, se dovessi dare un’indica­zione direi almeno quattro metri per tre, con la scritta in stam­patello: Cristello. In alto a sinistra la fotografia di Rocco. La persona che mi accompagna si accovaccia e accarezza velocemente la tomba.
«Lei voleva bene a Rocco Cristello?».
«Era una bravissima persona».
«Capisco. Perché mi ha portato qui?».
«Lo vede quanto è grande? È grande, ma è molto sem­plice e lui era così. Uno molto influente che però non faceva mostra di chi era, come fanno invece altri che poi li beccano perché vanno in giro con tutti i soldi che fanno addosso, tra Rolex e altro… Lui non esibiva per non dare nell’occhio».
Cristello è morto a quarantanove anni.
«Lei a quanti anni l’ha conosciuto?».
«Ero minorenne. E le devo dire la verità, per Rocco mi è dispiaciuto! Ci ho passato del tempo insieme, era gentile e generoso».
«Mi scusi», dico mentre torniamo verso la macchina, «ma spacciava chili e chili di cocaina, per non parlare di estor­sione, usura, detenzione di armi…».
«Lei sta parlando con uno spacciatore, se uno traffica co­caina, io lavoro».
Giusto. Non ribatto.

«Rocco Cristello era uno che gli giravano soldi a palate e aiutava tutti. A parte la questione spaccio, io per lui ho fatto dei lavoretti e non è che voleva la fattura che poi ti paga a no­vanta giorni, se ti paga… perché in Brianza il problema non è che non c’è lavoro, ma che se ti va bene ti pagano meno del pattuito e a rate, se ti va male non ti pagano proprio… invece loro ti danno tutto subito e sull’unghia, e ti offrono anche il pranzo, è quello che rende forte la ’Ndrangheta. Il denaro. E con quel denaro ci mangiano tutti, qua intorno. È la banca più grande del mondo». (…)

«La gente aveva paura di lui, era intimorita e veniva ri­spettato. Ma è che non doveva fare niente lui, bastava la sua fama, il suo cognome, le voci che circolavano sul suo conto, e poi aveva la sua squadra dietro che faceva i lavori spor­chi. Per dirti, il pizzo o i prestiti a usura, non è che andava lui direttamente, andavano quelli sotto di lui. Sono loro che vanno in giro a fare le estorsioni».
«A Seregno si paga il pizzo e ci sono le estorsioni?».
«Lo sa anche il sindaco e lo sanno i carabinieri. Il pro­blema è che magari se il singolo va dalle forze dell’ordine a fare una denuncia, se è lui da solo, quello domani non c’è più».
«Sei mai stato minacciato da loro?».
«Come no! Loro ti mettono alla prova, se ti comporti bene, ti fanno anche dei regali. Se ti comporti male, vengono e ti dicono che stai sbagliando e, se continui a comportarti male, se ti va bene ti cacciano, se ti va male finisci come il povero Sannino…Ti fanno a pezzi e ti fanno sparire».

Tratto da La quinta mafia, di Marta Chiavari, Ponte alle Grazie 2011

Articolo Precedente

La giusta parte, storie dell’antimafia

next
Articolo Successivo

E lo Stato lasciò solo il generale Dalla Chiesa L’ultima intervista prima della strage

next