A Mapello, in provincia di Bergamo, i lavori nel cantiere per la realizzazione del centro commerciale, salito all’onore delle cronache per la vicenda della scomparsa e dell’omicidio di Yara Gambirasio, proseguono alacremente. Tra un anno o giù di lì, il complesso deve essere inaugurato. Quando nel 2010 cominciarono i lavori, le terre di risulta per la realizzazione delle fondamenta, in un’area in cui un tempo esisteva un’ex raffineria Sobea, sono finite in provincia di Brescia. Più precisamente alla cava Macogna, tra Travagliato, Cazzago San Martino e Berlingo, tre centri a ridosso della Franciacorta.

Il 16 giugno scorso durante l’autopsia eseguita sul corpo di Yara, nei suoi polmoni sono state trovate tracce della tipica polvere che si respira sui cantieri edili. L’area di Mapello, nella quale è stato perso tanto tempo durante le fasi di ricerca della ragazza, è tornata quindi d’attualità.

Su quel luogo, però, sono molte le ombre che cominciano ad addensarsi. Nel febbraio di quest’anno il Gico (Gruppo investigativo criminalità organizzata) della Guardia di Finanza e gli uomini del Nita (Nucleo interforze tutela ambientale) di Brescia, su mandato dei magistrati Paolo Savio e Michele Stagno della Direzione distrettuale antimafia – competente in materia per reati ambientali – hanno sequestrato diversi ettari della Macogna. Tredici persone risultano indagate, per traffico e smaltimento di rifiuti non pericolosi.

Tra loro i titolari delle due aziende bresciane che si erano alternate nella realizzazione del centro commerciale di Mapello, la Costruire srl e la Bregoli spa e diversi autotrasportatori che, privi delle dovute autorizzazioni, “procedevano – scrivono i magistrati di Brescia – all’escavazione di sabbia e ghiaia nella cava [e] trasportavano terra di risulta dal cantiere ex Sobea del comune di Mapello, avente ad oggetto la realizzazione di un centro commerciale, presso la cava posta in località Macogna e qui la riversavano in buche precedentemente scavate”.

Tra le aziende indagate c’è la Autotrasporti Giglio di Gualtieri in provincia di Reggio Emilia. Il titolare è Giuseppe Giglio, 44 anni, originario di Crotone. Il suo nome è agli atti di un’operazione antimafia condotta nel 2009 dalla Dda di Catanzaro. È presentato come un imprenditore pesantemente taglieggiato dalle cosche e, nello specifico, dalla potentissima ‘ndrina dei Nicoscia, con base a Isola di Capo Rizzuto, in provincia di Crotone. Sembra che gli affari di Giglio fossero tenuti in scacco dalla ‘ndrangheta e che l’imprenditore non potesse ribellarsi. Pur lavorando al nord era costretto a pagare il pizzo ai suoi aguzzini.

Questo sistema lo ha conosciuto bene Angelo Salvatore Cortese, storico pentito di ‘ndrangheta, che nel 2007 fa mettere a verbale le seguenti parole: “Pino Giglio si può dire che è come una specie di bancomat”. Proprio così: una “cassa continua”, soprattutto per il boss Salvatore Nicoscia (di recente condannato a 12 anni di carcere proprio per questi fatti) “il quale – scrivono i magistrati di Catanzaro – in modo sistematico, una o due volte al mese, si recava a Reggio Emilia per riscuotere denaro a titolo estorsivo dagli imprenditori Pino Giglio e altri”. Cortese racconta poi che nel 2007 fu lui stesso ad intervenire affinché Giglio consegnasse cinque mila euro nelle mani di un sodale di ‘ndrangheta.

Anche Pasquale Manfredi, killer spietato della cosca Nicoscia arrestato nel marzo del 2010, mungeva soldi a Giglio. L’imprenditore crotonese stava uscendo da quell’incubo proprio mentre iniziava a lavorare nel cantiere di Mapello, con la necessità di rientrare dai tanti soldi che le sanguisughe della ‘ndrangheta gli avevano sottratto.

La Autotrasporti Giglio non è l’unica azienda indagata per gli scarichi abusivi alla Macogna. I magistrati di Brescia stanno vagliando pure la posizione della Edilquattro Srl di Borgosatollo, della Rgm autotrasporti di Bagnolo Mella, dell’Autotrasporti Tartaglia di Salerno e della Escavazioni speciali Zamparini di Provaglio d’Iseo. “La cava in questione – scrivono i pm – non poteva essere escavata, né quindi vi si potevano smaltire rifiuti provenienti da altri siti. In più il trasporto delle terre in questione dal cantiere di Mapello avveniva senza che le stesse potessero essere classificate come terre e rocce da scavo ed in ogni caso, per circa 54 mila metri cubi di terra prodotti nel cantiere suddetto, avveniva senza che della loro destinazione vi fosse alcuna traccia documentale”.

La scorsa settimana si sarebbe dovuto svolgere un incidente probatorio dopo una perizia effettuata sulle terre della cava Macogna. Il tutto però è slittato a settembre per alcuni difetti di notifica. La Procura di Brescia vuole verificare immediatamente la natura del materiale “tombato” illegalmente per “accertare se il deposito di terra proveniente dal cantiere di Mapello abbia interessato la falda della cava Macogna ed abbia prodotto un danno ambientale o comunque un’alterazione dello stato originario dei luoghi”.

La preoccupazione è che da una ex raffineria di petrolio, possano essere arrivate anche sostanze nocive per la salute pubblica. In questa vicenda sono interessate a vederci chiaro diverse amministrazioni comunali che con la Macogna confinano. In particolar modo il comune di Berlingo, che ha il serbatorio del suo acquedotto a poche decine di metri dall’area interessata dagli scarichi illegali.

Ma ormai ci sono un sacco di episodi che andrebbero chiariti attorno alla cava Macogna e al tristemente noto cantiere di Mapello.

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