Il 17 dicembre 2010 avevo scritto un post in cui cercavo di spiegare le ragioni per cui la puntata del giorno prima di Annozero aveva rappresentato una pietra tombale per le possibilità degli studenti di far valere le loro ragioni all’interno della già quasi inesistente dialettica politica sulla legge Gelmini. Leggendo i commenti, mi è stato ripetutamente chiesto di dichiarare quali fossero, secondo me, le modalità attraverso cui sia possibile protestare contro il Governo, contro chi legifera e chi decide, in modo tale da generare una qualche reazione, almeno l’ascolto, da parte del Palazzo. Ci provo.

Parto da un po’ di presupposti.

Prima di tutto: non penso che la violenza sia la soluzione. Molti dei commenti al post di settimana scorsa, invece, inneggiavano all’uso della forza o la giustificavano come unica via possibile per esprimere la rabbia, l’urgenza, anche la disperazione. Vi dico molto serenamente che non sono affatto d’accordo.

Penso, piuttosto, che l’esasperazione violenta sia l’obiettivo che il Governo intende raggiungere per giustificare misure repressive, antidemocratiche, di limitazioni alla libertà individuale e all’aggregazione tra persone per motivi di “sicurezza” e “ordine pubblico”. Meno libertà = più violenza, più violenza = meno libertà. Questo è il meccanismo di controllo dell’opinione pubblica che si intende effettuare. Gasparri ha già ampiamente illustrato questa intenzione parlando di arresti preventivi agli studenti.

Riuscite a immaginare il Ministro La Russa, giovane militante di estrema destra e oggi orgogliosamente fascista, a capo di un movimento d’opinione per il dialogo tra le parti insieme al Ministro Maroni, condannato per via definitiva per resistenza a pubblico ufficiale? Io, francamente, no.

Facciamo mente locale: quanto spazio è stato dato sui media negli ultimi giorni agli scontri di Roma e quanto alle ragioni degli studenti? E negli ultimi due anni, quanto spazio è stato concesso agli oppositori della Riforma per parlare con l’Italia?

Ancora, ragionando in termini percentuali: quanti conoscono la legge Gelmini nella sostanza e quanti no? In quanti si informano da mezzi alternativi alla televisione? E dunque, quanti sono gli italiani che secondo voi hanno costruito la loro opinione tenendo a mente non più di due fotogrammi, ossia le scene della violenza di settimana scorsa e la frase, ripetuta ossessivamente: “La riforma-Gelmini introduce il merito”?

Secondo me sono almeno quattro italiani su cinque. Non ho dati oggettivi e me ne dispiaccio, ma il sistema mediatico italiano lascia poco spazio per ipotesi alternative: esisti solo se sei in televisione. Centinaia di migliaia di persone lavorano, si incontrano, scrivono documenti, fanno opposizione ogni giorno. Per moltissimi italiani tutto questo, semplicemente, non esiste.

Questo non è un invito ad andare tutti in Tv o a piegarsi a questo sistema di formazione dell’opinione, ma a riflettere sul fatto che molti sforzi fatti da molti di noi sono stati inutili, perché non sono conosciuti dalle persone che in teoria dovremmo rappresentare e a cui dovremmo parlare. E dunque dobbiamo cambiare metodi per ottenere i nostri obiettivi, altrimenti sarà tutto vano, anche l’intelligente protesta degli studenti di mercoledì che sono riusciti a isolare i violenti e a ottenere un obiettivo minimo, il dialogo con Napolitano, che però dovrebbe decidere di non firmare la riforma perché quel dialogo abbia un senso.

Non dobbiamo neanche pensare che il Governo non ascolti solo i cittadini, perché non accetta neanche il contribuito dell’opposizione parlamentare. Mentre Obama scopre una nuova stagione del suo mandato mettendo in serie successi bipartisan (ma da lui fortemente voluti), da noi il dialogo tra parti “per il bene del Paese” (frase abusata) non esiste da almeno venti anni. L’unico che ha fatto eccezione, almeno negli ultimi due anni, è stato Gianfranco Fini, che è riuscito a dettare l’agenda per quattro mesi (bloccando il testo sulle intercettazioni, per dirne una) ed è stato sovraesposto mediaticamente nel bene e nel male prima di essere fortemente ridimensionato dalla giornata del 14 dicembre.

Per farsi ascoltare bisogna toccare gli interessi privati dei politici. Le strade per ottenere questo risultato, a mio avviso, sono tre:

Attacco al potere. I cittadini hanno diritto di voto. E alle urne dovrebbero ricordarsi sempre del potere che hanno (e per questo mi arrabbio sempre con chi non vota). Quando Fini ha minacciato il crollo del Governo Berlusconi, il Premier lo ha ascoltato, eccome. La classe politica italiana probabilmente non ci permette di scegliere tra alternative realmente diverse tra loro e i sistemi per impedire l’accesso al voto dei cittadini sono tanti (liste bloccate, Primarie sempre più in discussione). Non è un caso che sotto elezioni si arrivi persino a pagare i cittadini per l’acquisto di un voto. Anche in quel frangente siamo molto più che ascoltati. È la prova che il nostro potere, se ben gestito è più forte di quello politico perché ne è un prodotto generativo. A tutti quelli che accettano promesse o entrano nel meccanismo del voto di scambio bisognerebbe dire che il loro voto vale molto di più dei cinquanta Euro offerti di solito, del posto di lavoro o delle promesse di campagna elettorale, perché altrimenti non ci farebbero tutte queste offerte. Perché un politico che lavora per l’interesse del Paese ci fa guadagnare molto di più di ciò che riusciremmo ad ottenere vendendo la nostra libertà. I cittadini possono mettersi d’accordo tra loro, decidere insieme e consapevolmente per mettere in soffitta un sistema di potere che non ha colore politico. Ma devono parlarsi. Questa è la base di tutto: perché una protesta funziona dobbiamo prima di tutto parlare coi nostri, poi puntare al Palazzo. Se non convinciamo i nostri pari, i nostri simili, saremo sempre deboli.

Attacco ai privilegi economici: siamo in una cleptocrazia. I soldi sono il motore dell’azione politica. Basta seguire le parabole dei vari Razzi e Scilipoti di questi giorni. Questo è un dato acquisito e anche tollerato, talvolta coccolato dagli stessi cittadini vicini ai vari potentati locali che sperano che un giorno verrà offerta loro la mammella per ciucciare e mettersi a posto. La cleptocrazia ci rappresenta fedelmente, perché gli italiani non sono affatto diversi in questo: coi soldi si può far tutto, sediamoci e discutiamone. Molti sognano il Parlamento non perché è il luogo da cui si possono cambiare le sorti di un Paese, ma perché “cosi mi sistemo”. Immaginate la politica senza tutto questo giro economico: chi la farebbe? Dato che la classe politica decide però di se stessa, sono pochi gli interstizi in cui infilarsi. Una leva è l’attacco al potere, un’altra è il boicottaggio. È un esercizio pesante, che porta chi lo esercita a doversi privare delle proprie libertà individuali per un periodo di tempo indefinito. Però anche la libertà ha un costo, ce lo dice la storia. Non guardare Mediaset per qualche anno (per fare un esempio) sarà certamente meno doloroso di altri sacrifici che nel mondo sono stati fatti per raggiungere l’emancipazione da sistemi che si ritenevano oppressivi e incapaci di ascoltare.

Guerriglia comunicativa: la violenza fisica non genera più cambiamento. Il potere è in mano a chi ha i dati. Per questo Wikileaks è così temuto, per questo chi ha i dati sui sistemi di potere pubblico (la politica) non li condivide. I dati, però, non bastano: vanno comunicati, resi fruibili, gradevoli, ascoltabili, condivisibili. Devono essere un’alternativa al Grande Fratello e ai culi in televisione. Devono dare la sensazione che la conoscenza porti a un vantaggio, economico o di benessere individuale. Le tabelle non interessano a nessuno: magari un buon video o la spiegazione didascalica di ciò che entra o esce dalle tasche dei cittadini, o dell’impatto di una misura sulle nostre vite quotidiane, sulle tasse, la vita, i servizi, le relazioni personali, sì. Siamo tutti giornalisti potenziali, tutti possiamo scrivere, tutti possiamo fare lo scoop. Tutti possiamo scrivere su Twitter in tempo reale, tutti possiamo realizzare un video con un cellulare e caricarlo su Youtube, tutti possiamo scrivere un post su un blog. Ovviamente la singola azione non è sufficiente, bisogna farlo tutti insieme. Per farlo bisogna studiare. Per sfidare una corazzata che fa dell’intreccio tra politica, media e formazione dell’opinione pubblica il suo punto di forza, non basta lo spontaneismo, nemmeno quando si ha ragione. Bisogna studiare, bisogna essere inattaccabili, non bisogna mai attaccare la persona ma sempre i suoi contenuti, bisogna delegittimare la classe politica dimostrando l’incapacità di governare e non con gli insulti, perché la diffamazione rende meno autorevole chi la fa, dunque meno ascoltabile, dunque inutile in questo sistema. Costringere il politico alla gaffe, al fuori onda, a dire ciò che pensa davvero (lontano dalle telecamere vere, quindi convinto di essere impunito) è il modo migliore per farlo delegittimare all’istante agli occhi di chi, Berlusconi, non può certamente permettersi alcuna crisi comunicativa che non sia generata da lui e gestita da lui medesimo.

Serve la combinazione di questi tre fattori, serve da tutti e serve tutti i giorni. So che all’apparenza è una missione impossibile, perché spesso la difesa del proprio orticello, la pigrizia e il disincanto (in una parola, l’individualismo) vince sull’idea di comunità, sull’abbraccio tra generazioni, sulla convinzione che crescendo insieme, si cresce tutti. Ma ci dobbiamo provare.

Per chiudere voglio fugare un altro equivoco: serve anche la Piazza. Non più, però, come un luogo di contestazione ma di costruzione, come momento di identificazione, di ascolto collettivo, di apprendimento, di empatia e di condivisione. Quella è l’unica Piazza fa paura alla politica, solo quella piazza può essere ascoltata, solo “una forza tranquilla” (per citare forse la migliore campagna di comunicazione politica della storia) può davvero terrorizzare chi difende lo status quo.

Sono curioso di leggere i vostri commenti (soprattutto se siete riusciti ad arrivare sino in fondo, di questo vi ringrazio in anticipo). E soprattutto sono curioso di sapere se negli ultimi cento anni una protesta violenta del popolo contro lo Stato ha poi portato la democrazia o il miglioramento evidente delle condizioni di vita in quei Paesi dove ciò è accaduto.

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