Il caso Lucci

L’assalto dell’amico ultrà “Noi pestati con le cinghie”

Derby 2009 - Il capo leghista rivendica l’incontro: “Lo rifarei” Storia del raid contro gente pacifica: Virgilio perse l’occhio

19 Dicembre 2018

Dalla stretta di mano tra Matteo Salvini e Luca Lucci, alias il Toro, alla sera del 15 febbraio 2009. Riavvolgiamo il nastro per comprendere cosa successe quel giorno, quando Virgilio Motta perse l’occhio per un pugno dallo stesso Lucci. Il ministro ieri ha rivendicato l’incontro con l’ultras: “Lo rifarei”. Ma per quei fatti si è svolto un processo con condanne fino a quattro anni e mezzo. Le testimonianze di allora raccontano in presa diretta i fatti. Quella sera la Banda Bagaj, non un gruppo ultras ma un Inter club con famiglie al seguito, si accomoda al primo anello blu. Tra loro anche bimbi piccoli e un ragazzo down. Sopra, al secondo anello, gli ultras del Milan. Pochi minuti prima del fischio, la curva Sud srotola la coreografia, lo striscione finirà per coprire la vista di chi sta sotto. Qualcuno la strappa.

Spiega in aula Max Rizza, figura storica della Banda: “Mi sono accorto che da sopra erano arrabbiati perché gli stavano danneggiando il telone che loro avevano esposto dalla transenna verso il basso. Il telone però distava da noi almeno 30/40 metri”. Da sopra inizia a venire giù di tutto. Ilaria C.: “Prima dell’inizio della partita sono stata colpita alla testa da un fumogeno”. È l’inizio della rissa comandata da Lucci, già all’epoca influente in curva Sud. Il manipolo è composto da circa 30 persone. Scendono le scale e si presentano al primo anello blu. Le forze dell’ordine non ci sono, la zona è controllata dagli steward.

Spiega Rizza: “Quando questi sono arrivati pensavano di trovarsi davanti un altro gruppo di ultras, ma vedendo donne e bambini sono rimasti fermi per un istante, quasi sorpresi, dopodiché si sono avventati verso lo striscione”. Il figlio di Fausto G. all’epoca ha poco più di 14 anni, con lui il fratellino di 11. Tutti hanno seguito papà Fausto che fa lo sbandieratore nella Banda. Dirà in aula il figlio più grande: “Urlavano: il primo che si muove lo ammazziamo. Ho visto gente che veniva giù per picchiare con la cinghia in mano, con gli orologi usati come tirapugni, per tirare i cartoni in faccia”.

Durante la rissa si prenderà un calcione in faccia, mentre il fratellino illeso osserverà sotto choc il padre massacrato dal gruppo Lucci. Dirà Ilaria: “Quelle persone arrivavano in fila indiana, erano decisi e determinati”. Gli ultras per prima cosa vogliono portare via lo striscione della Banda Bagaj. Max e Virgilio, più altri due o tre si oppongono. Scatta il pestaggio. Il pugno fatale, Virgilio Motta lo descrive così: “Un dolore fortissimo. Mi metto subito le mani al volto, indietreggio e finisco nelle braccia di una ragazza che era dietro di me e mi abbraccia. Tolgo la mano e trovo sangue, trovo molte lacrime, sostanza gelatinosa e una lenticchia gelatinosa”. Chi lo tiene è Michela C.: “Virgilio era verso la transenna, l’altro ragazzo che gli ha tirato il pugno era in obliquo (…) . Era pelato, l’ho visto bene”. Anche il fratello di Virgilio, Massimiliano sarà coinvolto. Spiega Massimiliano Motta in aula: “Mi riattacco allo striscione, dopo pochi secondi mi arriva un altro forte pugno. Mi sono messo le mani in faccia e mi sono reso conto che avevo il volto pieno di sangue”.

E poi c’è il Fausto Grazioli, tradizione cattolica, mai dato un pugno in vita sua. Con sé ha i due figli. Viene picchiato perché tenta di difendere la sua bandiera. Spiega Carlo Lombardo: “Ho visto Fausto uscire dalla rissa, che aveva perso gli occhiali, aveva il naso tagliato, mi chiedeva: cosa è successo?”. “Il figlio più piccolo – spiega un altro testimone – era scioccato. Ero più preoccupato per lui che per il padre”. Il figlio più grande di Fausto conclude: “Ho visto mio fratello che stava piangendo, l’ho abbracciato cercando di portarlo fuori dal casino”. Per questo Lucci è stato condannato a quattro anni e mezzo. In aula la moglie di Lucci urlerà: “I 140 mila euro te li devi spendere tutti in medicinali, maledetto infame”. Era il 15 febbraio 2009. Nove anni e dieci mesi dopo, ecco il ministro dell’Interno stringere la mano al Toro milanista.

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