I referendum permettono ai lavoratori di prendere parola. Il sindacato si è rilanciato, vedremo se è un nuovo corso

L’8 e 9 giugno si vota per i cinque quesiti referendari. I primi quattro sono stati promossi dalla Confederazione Generale Italiana del Lavoro (CGIL) attraverso un’importante campagna di mobilitazione nazionale, che ha consegnato alla Corte di Cassazione oltre quattro milioni di firme. Merito di un lungo percorso di partecipazione, iniziato con la “Via Maestra” e culminato in questo referendum.
Ai quattro quesiti sul lavoro ne è stato affiancato uno sulla cittadinanza, che si propone di riportare da 10 a cinque gli anni di residenza necessari alle persone provenienti da Paesi extra Ue per effettuare la domanda di cittadinanza. Anche quest’ultimo quesito è strettamente connesso al tema del lavoro: prima di ottenere la cittadinanza le persone migranti sono sottoposte a un ricatto estremo che le rende le più precarie tra i precari, relegandole nell’impossibilità di far valere i propri diritti; infatti, se perdono il lavoro rischiano di perdere il permesso di soggiorno.
Questi 5 quesiti referendari sono importanti perché prima di tutto permettono a milioni di lavoratrici e lavoratori di prendere parola attraverso il voto, rivendicando direttamente la centralità del lavoro e dei propri diritti nell’agenda politica del paese. Votare in questo momento storico, in cui governo e maggioranza invitano pubblicamente all’astensionismo mentre attaccano il diritto al dissenso con l’approvazione del decreto sicurezza, è un obbligo morale e civile, oltre che un’opportunità di parlare alle persone, provando ad affrontare il tema del consenso e della partecipazione democratica su vasta scala, per spiegare come l’esercizio del diritto di voto è l’unico modo che abbiamo per difenderlo.
Nel primo quesito il sindacato propone di affrontare di petto la questione dei licenziamenti illegittimi, abrogando parte della legge voluta dal governo Renzi, che ha abolito l’articolo 18 con il Jobs Act. La modifica dell’attuale norma e il ripristino dell’articolo 18 comportano che il lavoratore ingiustamente licenziato possa essere reintegrato salvaguardando così il proprio posto di lavoro. Oggi invece, un’azienda con più di 15 dipendenti può decidere di licenziare senza un valido motivo, cavandosela con un indennizzo tra 6 e 24 mensilità. Sono oltre 3 milioni e 500 mila i lavoratori penalizzati ogni anno da questa legge. La possibilità di ottenere il reintegro è fondamentale per chi lavora, perché ne diminuisce la ricattabilità e ne aumenta il potere contrattuale.
Il secondo quesito referendario propone, per le aziende con meno di 16 dipendenti (circa 3 milioni e 700 mila) in caso di licenziamento illegittimo, di eliminare il tetto massimo di 6 mensilità da versare come indennità a un lavoratore dipendente licenziato, restituendo al giudice (come accadeva prima del 2014) il potere di quantificare l’importo. In questo modo si protegge il posto di lavoro, perché l’azienda ci dovrebbe pensare due volte prima di licenziare, e si può ottenere una stima più precisa del danno arrecato al lavoratore, partendo dalla gravità del contesto e dalla sua condizione.
Il terzo quesito contro il lavoro precario promuove la reintroduzione della causale per i contratti a termine. Specificando il motivo per cui le imprese decidono di adottare contratti precari si ribalta il paradigma secondo il quale questi rappresentino la norma e non l’eccezione. Con la causale si contrastano gli abusi e si agevolano le stabilizzazioni nel caso in cui la motivazione risulti debole o inappropriata. In Italia sono 2 milioni e 300 mila persone che hanno contratti di lavoro a tempo determinato.
Il quarto quesito riguarda la sicurezza sul lavoro. In Italia si registrano in media 3 morti bianche al giorno. Un vero eccidio che testimonia quanto ancora nel nostro paese ci sia da fare in materia di salute e sicurezza. Con questa modifica si interviene nella legge che regola il sistema degli appalti, uno dei principali scenari di morti e infortuni sul lavoro: l’azienda appaltante tornerebbe a rispondere direttamente in quanto responsabile sociale, prevenendo l’abuso degli appalti a cascata. Se l’azienda principale si fa carico dei costi su salute e sicurezza, il lavoro e la salute sono più tutelati e non diventano una voce a bilancio su cui risparmiare, scaricando gli oneri sulle società più piccole in subappalto, in molti casi cooperative fantasma.
Questo voto non sarà l’inizio della rivoluzione, e nemmeno la rivolta sociale. Non basterà così poco a risolvere la montagna di problemi che gravano sul mondo del lavoro di oggi. In ogni caso un risultato questo referendum l’ha già ottenuto: infatti, nonostante i tentativi ben riusciti del governo di censurare il dibattito pubblico e mediatico, si è tornati a parlare di lavoro a milioni di persone, e moltissime si sono attivate partecipando in prima persona a banchetti, dibattiti, incontri, concerti, spettacoli e alle centinaia di iniziative organizzate dalla base in tutti i territori, in città come in provincia.
La CGIL si è messa a disposizione – forse non sempre nel migliore dei modi, anche in questa fase, cioè con una proposta molto verticale – per provare a rispondere alla crisi del consenso e tentare una ricomposizione tra sindacato, partiti e società, fronteggiando la crisi culturale che ha creato disaffezione per la politica e una disillusione generalizzata. Dubitiamo che tutte le attività svolte in questi mesi siano sufficienti per risvegliare dall’apatia e dal cinismo individualista, ma è innegabile come questi referendum abbiano rappresentato un modo efficace per rilanciare il ruolo del sindacato agli occhi di una parte di società civile.
Inutile dire quanto diffidiamo degli attori istituzionali, che si riposizionano a seconda della convenienza. Superfluo è anche ricordare che le norme oggetto del referendum sono state scritte da governi di centro sinistra, così come la Turco-Napolitano che legava lavoro e permesso di soggiorno. Solo il tempo ci dirà se questa campagna referendaria è stata solo un’operazione di marketing politico da parte di sindacato e partiti o se si tratta di un nuovo corso che li avvicina agli interessi reali di lavoratrici e lavoratori.
Questo referendum non presenta nessuna risposta definitiva, ma delinea una prospettiva costruttiva, che va interpretata con le migliori intenzioni, per continuare a non perdere terreno e la fiducia di chi ancora crede nel sindacato, nonostante tutto. Un sindacato combattivo che permetta attraverso le lotte – che ci sono, basti pensare agli scioperi nazionali dei metalmeccanici – di ottenere salari dignitosi recuperando potere di acquisto, una riforma dei contratti e una migliore conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.