Il mondo FQ

Fine vita, la Consulta conferma il requisito del sostegno vitale. “Cintura di protezione” per fragili, anziani e soli

Una decisione che - nel giorno in cui il testo promesso dal governo di centrodestra non c'è - potrebbe aprire le porte nei confronti di Marco Cappato, che ha accompagnato pazienti terminali ad arrivare in Svizzera
Commenti

Una conferma delle sentenza precedenti – Dj Fabo del 2019 e quella dell’estate del 2024 che estendeva alla nozione di sostegno vitale alcune procedure di caregivers – , ma non un passo avanti rispetto ai casi di pazienti, come quelli oncologici, che nella stragrande maggioranza dei casi non hanno il requisito del sostegno vitale. La Corte costituzionale ha stabilito che non è costituzionalmente illegittimo subordinare, la non punibilità dell’aiuto al suicidio, al requisito che il paziente necessiti, secondo la valutazione medica, di un trattamento di sostegno vitale. Pur dichiarando non fondata la questione di legittimità sollevata dal Tribunale di Milano, sulla costituzionalità di tale requisito, ha confermato che i trattamenti di sostegno vitale devono ritenersi sussistenti anche se rifiutati dalla persona malata. La Corte nella decisione ha dichiarato non fondate le eccezioni proposte dal Governo e dagli interventi ammessi. I giudici della Consulta hanno inoltre ammonito per la quarta volta il legislatore affinché intervenga in materia di fine vita e ha evidenziato che il Sistema sanitario nazionale deve intervenire “prontamente” per dare concreta e puntuale attuazione alle sentenze 242/2019 e 135/2024.

Cappato a rischio processo – Una decisione che – nel giorno in cui il testo promesso dal governo di centrodestra non c’è – potrebbe aprire le porte nei confronti di Marco Cappato, che ha accompagnato pazienti terminali ad arrivare in Svizzera. Secondo i giudici “non è discriminatorio limitare a questi pazienti la possibilità di accedere al suicidio assistito, e che tale limitazione non viola il diritto all’autodeterminazione del paziente” ed è di fatto necessaria una “cintura di protezione” per scongiurare il pericolo che coloro che decidono di porre in atto il gesto estremo e irreversibile del suicidio assistito ‘subiscano interferenze di ogni genere'” come persone fragili, malate, sole o anziane. Viene quindi sottolineato che l’autodeterminazione, per essere genuina, deve essere bilanciata con il dovere dello Stato di tutelare la vita umana, che è in posizione apicale tra i diritti fondamentali.

I due casi – Il signor Romano, 82 anni, di origini toscane e residente a Peschiera Borromeo, e la signora Elena, veneta di 70 anni, non erano tenuti in vita da trattamenti di sostegno vitale classicamente intesi, per questo, come informa l’Associazione Coscioni – non avevano provato ad accedere al suicidio assistito in Italia poiché si ritenevano privi di uno dei requisiti della sentenza 242\2019 sul caso Cappato-Dj Fabo, se interpretati in senso restrittivo. Entrambi avevano chiesto aiuto a Marco Cappato per andare in Svizzera e accedere al suicidio medicalmente assistito. Cappato, ad agosto e a novembre 2022, si era dunque autodenunciato a Milano, al rientro in Italia.

L’appello al Parlamento – Il verdetto odierno ricalca quello emesso nella sentenza n. 135 del 2024. I giudici – nella nuova composizione che a fatica è stata raggiunta per la nomina dei quattro mancanti – rinnova inoltre il suo appello al legislatore affinché metta finalmente mano a una legge sul fine vita, e rileva che nel nostro Paese, non è garantito un accesso universale ed equo alle cure palliative nei vari contesti sanitari, sia domiciliari che ospedalieri; vi sono spesso lunghe liste di attesa; si sconta inoltre una mancanza di personale adeguatamente formato e una distribuzione territoriale dell’offerta troppo divaricata; e la stessa effettiva presa in carico da parte del servizio sociosanitario, per queste persone, è a volte insufficiente.

La posizione della procura e l’eccezione della gip – La Corte, nella sentenza n. 66, ha ritenuto non fondate varie questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 580 del codice penale, sollevate dalla giudice per le indagini preliminari di Milano, Sara Cipolla, al quale la procura di Milano aveva chiesto di archiviare due procedimenti per aiuto al suicidio sostenendo che un malato terminale può scegliere di essere aiutato a morire anche se non è attaccato a macchine che lo tengono in vita. E chi gli dà supporto, questa la tesi della procura di Milano, non è punibile. Inoltre la Procura assimila la sottoposizione a trattamenti di sostegno vitale “al rifiuto di sottoporvisi” se questi sono un accanimento terapeutico.

Per la procuratrice aggiunta, Tiziana Siciliano, e il pm Luca Gagli, Cappato “ha aiutato a suicidarsi due soggetti, entrambi affetti da patologie irreversibili” e destinati a morire “in tempo relativamente breve”. Malattie fonte per loro “di sofferenze psicologiche e fisiche insopportabili“. Entrambi, poi, “erano capaci di intendere e volere”. I suicidi assistiti, inoltre, sono avvenuti “nel rispetto di procedure equivalenti” a quelle della legge sul consenso informato. E i due, scrivono ancora i pm, avevano “rifiutato la prossima sottoposizione a ‘trattamenti di sostegno vitale’ che potevano scientificamente definirsi come espressione di accanimento terapeutico”. La giudice aveva quindi sollevato l’eccezione di costituzionalità.

Le motivazioni – I giudici non sono andati oltre le decisioni precedenti e hanno confermato quanto già precisato nella sentenza numero 135 del 2024, pubblicata successivamente all’ordinanza di rimessione: il requisito che il paziente dipenda da un trattamento di sostegno vitale è integrato già quando vi sia l’indicazione medica della necessità di un tale trattamento allo scopo di assicurare l’espletamento delle sue funzioni vitali, in sostanza ogniqualvolta si debba ritenere che l’omissione o l’interruzione di tale trattamento determinerebbe prevedibilmente la sua morte in un breve lasso di tempo, e sussistano tutti gli altri requisiti sostanziali e procedurali indicati dalla sentenza numero 242 del 2019. Non è dunque necessario che il paziente sia tenuto a iniziare il trattamento al solo scopo di poter poi essere aiutato a morire.

In assenza di una simile condizione, la Corte – reiterando considerazioni già svolte nella sentenza numero 135 del 2024 – ha ritenuto che non è discriminatorio limitare a questi pazienti la possibilità di accedere al suicidio assistito, e che tale limitazione non viola il diritto all’autodeterminazione del paziente. Pur non essendo, in ipotesi, precluso al legislatore compiere scelte diverse, laddove appresti le necessarie garanzie contro i rischi di abuso e di abbandono del malato, al legislatore stesso deve infatti riconoscersi un “significativo margine di discrezionalità nel bilanciamento tra il dovere di tutela della vita umana, discendente dall’art. 2 Cost., e il principio dell’autonomia del paziente nelle decisioni che coinvolgono il proprio corpo, e che è a sua volta un aspetto del più generale diritto al libero sviluppo della propria persona”.

Il pericolo di abusi – La Corte ha poi sottolineato il carattere essenziale che rivestono i requisiti e le condizioni procedurali per la non punibilità dell’aiuto al suicidio cui ha fatto riferimento la giurisprudenza costituzionale, in quanto funzionali sia a prevenire il pericolo di abusi a danno delle persone deboli e vulnerabili, sia a “contrastare derive sociali o culturali che inducano le persone malate a scelte suicide, quando invece ben potrebbero trovare ragioni per continuare a vivere, ove fossero adeguatamente sostenute dalle rispettive reti familiari e sociali, oltre che dalle istituzioni pubbliche nel loro complesso” . Requisiti che “nella perdurante assenza di una legislazione che disciplini la materia, sono funzionali a creare una “cintura di protezione” per scongiurare il pericolo che coloro che decidono di porre in atto il gesto estremo e irreversibile del suicidio assistito ‘subiscano interferenze di ogni genere'”.

La percezione del diritto a morire Per i giudici “in un contesto storico caratterizzato da tensioni sull’allocazione delle risorse pubbliche, il cosiddetto “diritto di morire” rivendicato in alcune circostanze potrebbe essere paradossalmente percepito dal malato come un “dovere di morire” per non “essere di peso”, con un grave abbassamento della sensibilità morale collettiva che tutela le persone più fragili, spesso, peraltro, “invisibili”. Tale scivolamento colliderebbe frontalmente con il principio personalista che anima la Costituzione italiana. Da questo principio deriva, invece, il dovere della Repubblica di rispondere all’appello che sgorga dalla fragilità, in modo che una persona malata possa avvertire la solidarietà attorno a sé non a tratti, non a prolungate intermittenze, ma in via continuativa, attraverso un percorso di effettiva presa in carico da parte del sistema sanitario e sociale.

Accesso equo alle cure palliative – Diventa quindi cruciale, secondo la Corte, garantire adeguate forme di sostegno sociale, di assistenza sanitaria e sociosanitaria domiciliare continuativa, perché la presenza o meno di queste forme di assistenza condiziona le scelte della persona malata e può costituire lo spartiacque tra la scelta di vita e la richiesta di morte. È inoltre rilevante mettere a disposizione delle persone con malattie inguaribili tutti gli strumenti tecnologici e informatici che permettono loro di superare l’isolamento e ampliare la possibilità di comunicazione e interazione con gli altri. Al tempo stesso non può essere trascurato il “prendersi cura” anche di coloro che, nelle famiglie o all’interno delle relazioni affettive, assistono i pazienti in situazioni particolarmente difficili e per lunghi periodi.

In proposito, ha osservato con preoccupazione che ancor oggi, nel nostro Paese, non è garantito un accesso universale ed equo alle cure palliative nei vari contesti sanitari, sia domiciliari che ospedalieri; vi sono spesso lunghe liste di attesa; si sconta una mancanza di personale adeguatamente formato e una distribuzione territoriale dell’offerta troppo divaricata; e la stessa effettiva presa in carico da parte del servizio sociosanitario, per queste persone, è a volte insufficiente. Infine, la sentenza ha “ribadito con forza l’auspicio che il legislatore e il Servizio sanitario nazionale intervengano prontamente ad assicurare concreta e puntuale attuazione a quanto stabilito dalla sentenza n. 242 del 2019, ferma restando la possibilità per il legislatore di dettare una diversa disciplina nel rispetto delle esigenze richiamate ancora una volta dalla presente pronuncia”.

L’associazione Coscioni – “La Corte, con quest’ultima sentenza, ha ribadito un concetto fondamentale: il requisito del trattamento di sostegno vitale deve ritenersi soddisfatto anche quando la persona malata lo ha rifiutato. Le aziende sanitarie non possono ora ignorare due pronunce della Corte in meno di un anno: non possono negare l’accesso al suicidio medicalmente assistito perché il trattamento di sostegno vitale non è in atto perché rifiutato. Non solo, ma le aziende sanitarie devono dare concreta attuazione alle precedenti decisioni della Consulta in materia, sono gli stessi giudici costituzionali a ribadirlo” commenta Filomena Gallo, avvocata e segretaria nazionale dell’Associazione Luca Coscioni, che ha coordinato il collegio legale di studio e difesa di Marco Cappato*, indagato per aver accompagnato in Svizzera Elena e Romano che avevano, rispettivamente, rifiutato la chemioterapia e la nutrizione artificiale tramite PEG.

“Con un Parlamento italiano che continua a girare la testa dall’altra parte, e con una Corte costituzionale che ha ribadito di non potersi spingere oltre a quanto già stabilito, non resta che la strada della disobbedienza civile al fianco di chi viene attualmente discriminato. Dopo il processo che si apre a Firenze il 4 giugno per l’aiuto fornito a Massimiliano, torneremo dunque davanti al Tribunale di Milano per l’aiuto che ho fornito a Elena e Romano per accedere in Svizzera alla morte volontaria” dichiara Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, che continua “questa decisione della Corte conferma quanto già deciso sul trattamento di sostegno vitale: ora deve finire l’ostruzionismo delle aziende sanitarie. Per questo continuiamo la lotta per l’approvazione di leggi regionali che garantiscano tempi certi nelle risposte a chi soffre”.

Gentile lettore, la pubblicazione dei commenti è sospesa dalle 20 alle 9, i commenti per ogni articolo saranno chiusi dopo 72 ore, il massimo di caratteri consentito per ogni messaggio è di 1.500 e ogni utente può postare al massimo 150 commenti alla settimana. Abbiamo deciso di impostare questi limiti per migliorare la qualità del dibattito. È necessario attenersi Termini e Condizioni di utilizzo del sito (in particolare punti 3 e 5): evitare gli insulti, le accuse senza fondamento e mantenersi in tema con la discussione. I commenti saranno pubblicati dopo essere stati letti e approvati, ad eccezione di quelli pubblicati dagli utenti in white list (vedere il punto 3 della nostra policy). Infine non è consentito accedere al servizio tramite account multipli. Vi preghiamo di segnalare eventuali problemi tecnici al nostro supporto tecnico La Redazione