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Hamas strizza l’occhio a Trump: l’opportunismo del presidente può essere l’ancora di salvezza

Perché Hamas ha deciso di rilasciare un ostaggio israelo-americano proprio adesso? Il gruppo si sta giocando la partita della sopravvivenza
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di Claudia De Martino

Dopo oltre 52.000 morti e la minaccia di una nuova massiccia operazione militare in avvio la prossima settimana – i “Carri di Gideon”, della durata pianificata di un anno per rioccupare integralmente la Striscia di Gaza attraverso il dispiegamento di migliaia di riservisti – e i continui bombardamenti aerei, tra cui l’attacco mirato a Mohammed Sinwar di mercoledì notte, può apparire abbastanza difficile comprendere perché Hamas abbia deciso di rilasciare un ostaggio israelo-americano proprio adesso. Il gesto è stato interpretato dalla maggioranza dei media occidentali come un atto di buona volontà e apertura negoziale nei confronti degli Stati Uniti, che ormai, attraverso i loro vari inviati nella regione – Steve Witkoff, l’inviato speciale per il Medio Oriente e Adam Bohler, il mediatore speciale per gli ostaggi – negoziano direttamente con Hamas e altri gruppi appartenenti all’ “Asse della Resistenza”, precedentemente boicottati in quanto terroristi.

Lo stile disinvolto dell’Amministrazione Trump in politica estera, in aperta violazione del diritto internazionale, riguarda infatti anche la revisione delle stesse prassi Usa di lunga data nei confronti delle organizzazioni terroristiche, che prescrivevano di sospendere qualsiasi contatto con le cosiddette “FTO” (foreign terrorist organizations) in accordo con l’Immigration and Nationality Act (INA).

Molto più della precedente Amministrazione Biden poi, Trump ha inviato al suo alleato speciale Israele segnali inequivoci sulla totale autonomia USA in politica estera in Medio Oriente. I colloqui diretti in corso a Muscat con l’Iran sono tesi a riavviare o riformulare l’accordo del JCPOA del 2015 con clausole più restrittive sul monitoraggio della produzione di uranio arricchito da parte di Teheran, ma vanno contro i desiderata di Netanyahu, il cui governo avrebbe voluto attaccare le centrali iraniane già alcune settimane fa e non ha ottenuto l’assenso americano.

I colloqui diretti con gli Houthi, dopo i recenti bombardamenti statunitensi che hanno simbolicamente raso al suolo l’aeroporto, mostrano che gli obiettivi strategici di Washington nell’area del Mar Rosso sono molto più limitati di quelli israeliani: agli Usa interessa che il commercio marittimo mondiale riprenda ai ritmi precedenti al gennaio 2024 – quando gli Houthi, in solidarietà con Gaza, allargarono gli obiettivi della lotta e iniziarono ad attaccare anche navi cargo occidentali (e non più solo israeliane) – e non certo portare avanti un regime-change. Non a caso la posizione degli Usa sullo Yemen è stata criticata anche da altri Paesi dell’area, come gli Emirati Arabi e l’Arabia Saudita, che avrebbero visto con piacere un’estensione dei bombardamenti aerei statunitensi contro gli Houthi, che mettesse definitivamente in scacco il loro arsenale militare, mentre Trump puntava al massimo risultato con il minimo dispiego di forza (e di risorse) possibile.

A ciò si somma l’intenzione statunitense – non ancora realizzata ma a lungo ventilata dalla prima Amministrazione Trump e forse adesso preceduta dalla rimozione delle sanzioni annunciata martedì scorso – di ritirare le truppe americane dal nord-est della Siria, contraria agli interessi di Israele, che vede la presenza militare Usa come un elemento stabilizzatore, che potrebbe adesso realizzarsi grazie ad un insieme di circostanze favorevoli come la normalizzazione con il governo al-Sharaa e il processo di pace tra il PKK e la Turchia. Infine, Trump ha annunciato di voler svincolare il dialogo sul nucleare civile in corso con l’Arabia Saudita dalla normalizzazione con Israele – ovvero dall’allargamento degli Accordi di Abramo, obiettivo del suo primo mandato – segnalando ancora una volta che il suo alto volume d’affari con Riyadh – 142 miliardi di dollari in contratti militari, a cui si aggiungeranno quelli su centrali elettriche nucleari e criptovalute – non possano rimanere ostaggio del suo recalcitrante alleato mediorientale, ostinato nel non riconoscere nessuna vestigia di autonomia palestinese, almeno per tutta la durata dell’attuale governo (ottobre 2026).

È in questo contesto che va letta l’inaspettata mossa di Hamas, attento alle evoluzioni regionali, di rilasciare l’unico ostaggio di cittadinanza americana ancora in vita, Edan Alexander, con il solo obiettivo conclamato di scavare un piccolo solco tra Israele e Usa. Con una sola mossa, Hamas ha conseguito vari benefici: ha dimostrato di avere ancora una leadership politica che ragiona a tutto campo e sul lungo periodo, non pressata dalla guerra e ovviamente indisturbata dall’altissimo numero di civili morti a seguito delle sue scelte, che pensa di poter guadagnare tempo negoziando con gli Usa attraverso la mediazione del Qatar – che, guarda caso, ha regalato un lussuoso Jumbo jet al venale Presidente Usa proprio negli stessi giorni- per ottenere un cessate-il-fuoco temporaneo e riorganizzarsi sul terreno; ha ribadito all’opinione pubblica israeliana che l’unico modo di liberare gli ostaggi residui è attraverso negoziati, spingendo l’opposizione israeliana ad accentuare la pressione contro la nuova operazione militare; e, infine, ha segnalato agli Usa che non intende riacutizzare le tensioni e boicottare i suoi piani regionali, ma al contrario mostrarsi cooperativa in vista di una ripresa degli aiuti umanitari nella Striscia gestiti da organizzazioni private americane e non più dall’UNRWA.

In sintesi, Hamas si gioca la partita della sopravvivenza dialogando con l’unico attore politico, gli Stati Uniti, che hanno un minimo di influenza su Israele e che possono ancora impedirgli di lanciare il Paese in un’ulteriore disastrosa operazione militare sulla Striscia, tesa a completare la pulizia etnica della popolazione, sfortunatamente inscindibile dall’eliminazione totale dei militanti di Hamas. Con le spalle al muro, dopo che i suoi millenaristi obiettivi di lotta – lanciare con l’attacco terroristico del 7 ottobre una grande guerra regionale partecipata da Hezbollah, gli Houthi, la Cisgiordania e, chissà, perfino l’Iran – non si sono materializzati, la Striscia di Gaza è stata rasa al suolo e la sua popolazione ridotta allo stremo, Hamas ha solo due opzioni: o cedere le armi, scelta che decreterebbe la fine dell’organizzazione, o tentare di separare Usa e Israele strizzando l’occhio agli interessi americani, ovvero puntando sulla spregiudicatezza di un Presidente Usa imprevedibile e disinibito come Trump, disposto a fare affari oltre qualsiasi steccato e colore, che non ha nessuna intenzione di allinearsi integralmente alla strategia fondamentalista d’Israele a detrimento del proprio business regionale, a maggioranza arabo.

Oltre tutte le previsioni, l’opportunismo di Trump potrebbe paradossalmente rappresentare l’unica ancora di salvezza per Gaza, nel silenzio colpevole di un’Europa dei diritti che assiste incredula alla tragedia senza volervi intervenire.

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