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Processo Sabr, sentenza storica della Cassazione: la schiavitù esiste! Ma i veri mandanti la fanno ancora franca

La sentenza della Corte di Cassazione riconosce per la prima volta il reato di riduzione in schiavitù nel contesto del lavoro agricolo, rappresentando così un precedente storico
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Tredici anni fa, a Lecce, si apriva il processo “Sabr”, a seguito delle denunce sporte contro caporali e imprenditori agricoli che, per decenni, avevano sfruttato braccianti stranieri nelle campagne di Nardò. Un processo che mi ha visto tra i testimone chiave. Il principale, tra i reati contestati, era quello di riduzione in schiavitù, previsto dall’art. 600 c.p. Una norma ambigua e di non semplice interpretazione.

La sentenza della Corte di Cassazione riconosce per la prima volta il reato di riduzione in schiavitù nel contesto del lavoro agricolo, rappresentando così un precedente storico, destinato a fare scuola. Resta, tuttavia, l’amarezza per l’assoluzione dei mandanti, ovvero degli imprenditori italiani. A differenza degli intermediari – i cosiddetti caporali, spesso stranieri – non sono stati ritenuti penalmente responsabili per il reato di schiavitù, in quanto non direttamente coinvolti nelle modalità operative dello sfruttamento. Una decisione che non possiamo condividere, perché conferma, ancora una volta, che i più forti – in questo caso gli imprenditori agricoli – riescono il più delle volte a farla franca.

Ma ciò che davvero segna questo processo è che la Corte Suprema ha finalmente accertato una verità scomoda: in Italia la schiavitù è una pratica tutt’altro che estinta, ma viva e vegeta e per troppo tempo negata. Per anni lo abbiamo denunciato, accendendo i riflettori sul fenomeno del caporalato e del grave sfruttamento, ma siamo stati spesso accusati di danneggiare l’immagine dell’Italia. Oggi possiamo dire che la nostra azione è servita e siamo fieri di aver dato il nostro contributo.

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