Giornata della salute, l’appello: “800 miliardi in armi? Servivano alla sanità. Il sistema sta diventando come in Usa”

Il 7 aprile si celebra la Giornata mondiale della salute. Una ricorrenza annuale, istituita 75 anni fa dall’Organizzazione mondiale della sanità, per promuovere la salute e il benessere della popolazione, e sensibilizzare sui temi collegati alla sanità. Da circa dieci anni, a fianco di questa ricorrenza, si celebra anche la Giornata europea contro la commercializzazione della salute. In questo caso l’obiettivo è ribadire l’aspetto collettivo e sociale della salute, opponendosi alla privatizzazione dei servizi. La Rete europea “La salute non è in vendita”, attraverso i diversi gruppi nazionali che la compongono, si mobilita per ricordare che le persone hanno il diritto di non essere trattate come clienti, come semplici consumatori che accedono al mercato della salute in base al loro reddito. E quest’anno la rete manifesta con una motivazione in più: opporsi all’utilizzo di fondi pubblici per il riarmo. Come chiarisce bene lo slogan “Meno spese militari, più investimenti per la sanità pubblica”.
“In Italia stiamo tornando al sistema che esisteva prima della riforma del ‘78, quella che ha istituito il Servizio sanitario nazionale. Allora le persone riuscivano a curarsi in base alla forza della mutua che era legata ai loro contratti di lavoro o alle assicurazioni che avevano. Un metodo simile a quello statunitense, che teneva sei milioni di cittadini fuori da qualunque copertura sanitaria, abbandonandoli alla carità. L’universalismo del nostro Ssn aveva cancellato tutto questo e ora ci stiamo tornando”. A parlare a ilfattoquotidiano.it è Marco Caldiroli, presidente di Medicina Democratica, movimento che da 50 anni lotta per il diritto alla salute. La sua associazione fa parte del gruppo italiano della rete europea “La salute non è in vendita”. “Oggi più che mai, con la spinta in atto verso le spese militari, è gravemente a rischio il diritto alla salute – prosegue Caldiroli. – Quegli 800 miliardi di euro potevano servire per rafforzare il welfare e la sanità. Invece diventano un ulteriore mattone che ci sta arrivando addosso. Il tema dell’austerità non vale sempre, evidentemente”.
A soffrire dell’affaticamento del nostro Ssn sono specialmente le fasce più deboli della popolazione. Persone che non riescono più ad accedere alle cure a causa delle interminabili liste di attesa, della carenza e inadeguatezza dei servizi territoriali, e del sistematico indebolimento del pubblico a favore del privato. Associazioni e osservatori indipendenti continuano a denunciarlo: la povertà sanitaria è un problema in aumento nel nostro Paese. Quasi mezzo milione di persone, di cui 100mila minori, vive questa condizione, un dato in crescita dell’8,43% rispetto all’anno scorso. Persone che non sono in grado di pagarsi da sole i farmaci di cui hanno bisogno, che scelgono ogni giorno se mangiare o curarsi. Ma la difficoltà di affrontare le spese collegate alla salute coinvolge molte più famiglie. Sono 4,4 milioni quelle che hanno cercato di ridurre la spesa per visite mediche e accertamenti preventivi, o che hanno rinviato o rinunciato ad alcune delle cure necessarie. Si tratta del 16,8% del totale, circa 10 milioni di persone.
“Stiamo perdendo l’universalismo – commenta Caldiroli -. Il servizio pubblico non riesce più a rispondere ai bisogni della popolazione e questo lascia il campo aperto al privato. Perché non si può aspettare a curarsi, non è come rinviare l’acquisto di un’automobile. La salute non è come una qualunque altra merce”. Ma non tutti possono permetterselo. Ed ecco che la privatizzazione si trascina dietro la perdita dell’universalismo. “Il pubblico ha una funzione sociale, collettiva, che supera l’economicismo – continua il presidente -. Pensiamo al ruolo sociale della prevenzione primaria, che non è remunerativa nel breve. Per questa il privato non ha mostrato alcun interesse. Perché più ci sono malati e più ci sono prestazioni da offrire. Ha preferito assicurarsi settori più succulenti, come la medicina sportiva e l’odontoiatria. Mentre, per esempio, i consultori e le attività per la salute della donna sono state lasciate al pubblico”.
Sono molte le iniziative che si sono svolte nei giorni scorsi in tutta Italia, in vista della Giornata europea contro la commercializzazione della salute. A queste hanno aderito numerose associazioni, partiti e sindacati. Fra i quali, oltre a Medicina Democratica, Arci, Cgil, M5s, Avs, Psi e Pcr. Le associazioni della rete sono accomunate dal concetto di “one health”: la salute è il risultato non solo e semplicemente dell’accesso alle cure, ma anche di una serie di fattori determinanti, come le condizioni lavorative, dell’ambiente, quelle abitative e dalla sicurezza alimentare. Un approccio che tiene insieme sanità e diritti sociali. “In ogni caso – precisa il presidente -, dobbiamo sempre ricordare che il nostro Ssn, seppur zoppicante, è vincente rispetto ad altri modelli. Guardiamo per esempio a quello americano, dove le disuguaglianze sociali sono più gravi che in Italia. Nonostante abbiano un mercato sanitario che, al netto della differenza di popolazione, è cinque volte il nostro, hanno un’aspettativa di vita inferiore a quella italiana”.
La tappa finale della mobilitazione internazionale è Bruxelles, il 7 aprile, con una manifestazione dei rappresentanti dei diversi Paesi che aderiscono alla rete europea. Ma associazioni come Medicina Democratica si battono tutti i giorni dell’anno per seguire una direzione radicalmente opposta a quella verso la quale sta andando il mondo. “L’unico modo per invertire la rotta è seguire il percorso che hanno battuto le grandi riforme sociali degli anni ‘70, come quella del Ssn – spiega il presidente -. Ovvero la lotta e l’unione di tante realtà che si battono per i diritti sociali. Dobbiamo cercare di costruire e rafforzare una rete che si faccia sentire sempre di più, che non si disperda in tante diverse realtà locali”. Un passo decisivo sarebbe quello di riuscire a coinvolgere sempre più operatori sanitari e socio-sanitari. Professionisti spesso abbandonati dal sistema e che finiscono per arrangiarsi come possono in un contesto lavorativo difficile. “Dobbiamo cercare di unirli in un’unica piattaforma. Esponendosi insieme a noi possiamo essere più forti. E magari riusciremo a invertire la rotta”, conclude Caldiroli.