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Anche nel modo di aggredire gli “ingrati”, Trump e Putin si assomigliano sempre di più

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L’epilogo più vergognoso che sconcertante della cacciata in mondovisione dopo l’aggressione a due voci, anzi a doppie urla, di Zelensky da parte del duo Trump-Vance, era leggibile nella forma e nella sostanza dell’approccio al presidente ucraino da prima dell’Inauguration day. La concertazione non tanto sotterranea tra il “nuovo sceriffo a Washington” ed il tiranno moscovita, celebrata perfino nel voto negazionista sull’invasione dell’Ucraina dell’Onu si era consolidata già nel primo consiglio dei ministri dopo l’insediamento. Un’occasione istituzionale e mediatica ideale per ribadire che bisogna penalizzare e accusare infondatamente gli alleati (ormai ex) piuttosto che i “nemici”, compari nella spartizione del bottino.

Così mentre si materializzavano i dazi del 25% sulle importazioni dall’Unione Europea che è “nata per fregarci”, il ministro degli esteri russo Lavrov aveva attaccato con accenti degni della sua portavoce “la Ue che tifa per la guerra”, solo perché non vuole lasciare l’Ucraina in totale balìa di Mosca.

Ogni giorno si è assistito alla consueta dose di umiliazioni e denigrazioni per il “dittatore” e “comico mediocre” che “si nutre dei cadaveri” dei suoi soldati (secondo Musk).

Preparandosi a ricevere il leader ucraino, solo 48 ore prima della visita Trump aveva detto molto calorosamente: “Ho saputo che Zelensky verrà qui, se vuole venire per me va bene. In ogni caso si scordi la Nato”. Un trattamento da vassallo appena tollerato che deve aver deliziato Putin dopo che “l’illegittimo” Zelensky si era dichiarato disposto a dimettersi, come pretenderebbe il Cremlino, pur di vedere il suo paese protetto dall’alleanza (sempre meno) atlantica.

Poi a margine dell’incontro con Starmer, a poche ore dall’agognata firma sull’accordo vessatorio che Trump pretendeva da Zelensky e che avrebbe dovuto garantirgli spropositata “remunerazione” per quanto gli Usa hanno sborsato con Biden all’Ucraina, aveva sensibilmente “ridimensionato” la portata delle aggressioni fino a negare di aver mai pronunciato la parola “dittatore”. E aveva aggiunto rassicurazioni in merito alla volontà di Putin, convinto dal suo energico intervento di pragmatico pacificatore, di concludere un vero negoziato, garantendo per sua personale ed insindacabile convinzione che “manterrà i patti”.

Solo che l’accordo sulle risorse minerarie ucraine sembrava poggiare fin dal primo momento su fondamenta non compatibili con gli interessi basilari e irrinunciabili di un paese che, al di là della iniquità economica tra quanto si impegnava a concedere e quanto avrebbe ricevuto, continua ad avere bisogno assoluto di chiare ed inderogabili garanzie difensive.

Il problema enorme di quello che non era ancora un accordo ma solo “una cornice di intesa”, come ha precisato Taras Semenyuk politologo del centro studi indipendente Solid Info a Kiev solo alla vigilia dell’agguato (intervista Corriere 27/2/2025), risiede nella “mancanza di chiare garanzie di sicurezza americane. Questo, direi, rimane il punto più debole sulla bozza di accordo sullo sfruttamento delle nostre risorse minerarie, inclusi petrolio e terre rare. L’Ucraina mira a dimostrare che con Trump è possibile negoziare in modo proficuo e che non siamo noi a boicottare i rapporti con Washington. E ciò sebbene Trump abbia fatto grandi aperture a Mosca indebolendo la nostra posizione”.

Sono parole che confermano il fondamentale significato “politico” che doveva rappresentare l’accordo sulle risorse minerarie per l’Ucraina, necessitata a concedere a Trump il beneficio del dubbio per “non rompere con gli americani, nonostante lui abbracci Putin”. Ed era stato molto apprezzato da parte ucraina il fatto che fosse diventato oggetto di trattativa quello che all’origine era un brutale e assurdo ultimatum: “restituiteci” 500 miliardi, punto.

Nonostante il trattamento che era stato riservato personalmente a Zelensky e benché fosse chiarissima la determinazione di Trump, ossessionato dall’imperativo di fare cassa in qualsiasi modo e a soprattutto a danno degli “alleati”, il presidente ucraino non è entrato alla Casa Bianca per buttare tutto all’aria. Anche la reazione sgomenta della sua delegazione può essere una conferma. Ma una cosa è accettare condizioni economicamente gravemente svantaggiose, un’altra è piegarsi allo status di colonia o satellite a cui vogliono ridurre l’Ucraina le intese spartitorie e predatorie di Putin e Trump.

Dopo la fermezza e la dignità opposta alle accuse intimidatorie “non rispetti gli americani, devi ringraziare, stai giocando con la Terza guerra mondiale”, Zelensky – nell’intervista alla rete conservatrice-filo Trump Fox News – ha ribadito che “senza garanzie sulla sicurezza non si può arrivare a nessun accordo”. E al segretario di stato Marc Rubio, che gli ha intimato di scusarsi “per averci fatto perdere tempo in un incontro che è finito in questo modo”, ha risposto che non deve scusarsi di nulla, visto che è stato messo alla porta dopo un’ora di attesa. Anche nei metodi di aggressione nei confronti degli “ingrati” Trump e Putin tendono sempre più ad assomigliarsi come nella pretesa di dominio e di sottomissione degli “stati minori” all’interno delle rispettive aree di influenza.

Che le promesse di pace di Trump si sarebbero rivelate minacce di ulteriore conflittualità e di totale travolgimento del diritto internazionale a danno di Ucraina ed Europa era una previsione fin troppo facile. Il richiamo alla Terza guerra mondiale, causata dall’Ucraina in quanto responsabile dell’aggressione russa e la pretesa di destituire Zelensky per insediare a Kiev qualche “brava persona” gradita a Mosca lo confermano drammaticamente. Continuare per apparente convenienza a far finta di niente è solo un regalo a Putin, Orban, Salvini e affini.

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