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Shoah a Venezia: una storia di italiani contro italiani

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di Rosamaria Fumarola

Talvolta nella vita si è oggetto o testimoni di piccole e grandi ingiustizie rispetto a cui si è colti da una sorta di mutismo, perché si è consapevoli che la propria voce non sarebbe ascoltata, oppure perché si teme che l’ingiustizia stessa possa subire un’amplificazione, un aggravamento qualora si tentasse una difesa.

Accade poi che con la memoria, negli anni si ritorni a quell’ingiustizia, rendendosi conto che non sia stata ancora “chiamata per nome”, che manchi dunque qualcosa per scendere dalle domande senza risposta su cui si è stati costretti a vivere.

Tale esperienza ci può aiutare a comprendere meglio un fenomeno, quello che riguarda alcuni accadimenti dell’ultimo conflitto mondiale che hanno avuto come teatro il nostro paese. Che talune domande rimangano più a lungo di altre senza risposta non è casuale, anzi meno risposte si hanno a disposizione e più ci si rende conto del peso di quella verità che qualcuno non vuole ancora che irrompa sulla scena. Ad esempio a Venezia, prima della seconda guerra mondiale, vivevano circa duemila ebrei, 246 dei quali finirono nel campo di Fossoli e poi ad Auschwitz. Da Auschwitz ne tornarono otto.

L’ultimo conflitto ha sterminato sei milioni di ebrei (anche se recenti studi hanno mutato tale cifra: il numero esatto si aggirerebbe tra i quindici e i venti milioni), una cifra che spaventa e ammutolisce, ma che ci parla di una massa indistinta, nella quale non riusciamo a riconoscere i volti o i nomi e cognomi che invece ci sono e che, se li conoscessimo, ci parlerebbero di una realtà più vicina a noi di quanto immaginiamo.

Certo, sui libri di storia non si possono elencare i nominativi di sei milioni di persone, eppure per capire la tragedia di un fenomeno collettivo non si può non partire dalla storia di una tragedia che, prima di essere collettiva, è individuale, privata; che anzi, proprio per essere collettiva deve cucire assieme le vite singole degli uomini.

Allora torniamo a Venezia, nell’Archivio di Stato, dove solo da qualche anno sono a disposizione i documenti che conservano le denunce e le delazioni contro ebrei fatte durante la persecuzione nazifasciste per gli anni 1944-45, con i nomi dei denuncianti premiati dal regime con una somma che partiva da 1500 lire e poteva arrivare ad un massimo di 5000. Vi sono ovviamente i nomi degli ebrei ed elencati tutti i loro beni, i luoghi nei quali essi erano situati e i verbali delle confische ordinate dal prefetto ed eseguite dai suoi incaricati.

Vi compaiono i nomi di 500 famiglie ebraiche, alcune delle quali per sempre scomparse dalla città, mentre altre ancora vi risiedono. Nell’elenco si può leggere ad esempio che a Gabriella Guggenheim Luzzatti furono sottratti beni immobili situati in San Marco, beni mobili e danaro, e che il signor Renzo Camerino fu privato del proprio danaro, dei titoli e della Ditta Salviati e C., appunto dei F.lli Camerino.

Si può anche leggere che spesso erano gli stessi delatori ad appropriarsi dei beni. Non conosciamo oggi dunque solo i nomi dei “Giusti” ma anche di quanti, tanti, intesero interpretare la giustizia a modo proprio, grazie alla patente rilasciata da un regime che così credeva di risarcire gli italiani della povertà e dei danni da esso provocati con la guerra. Questa verità, in una lingua semplice e complessa, ci parla di un massacro di stato, pubblico, ma anche di uno privato, voluto e perpetrato da italiani contro altri italiani ed è proprio questa la parte con cui è più difficile fare i conti, perché confligge con la narrazione che facciamo di solito di noi stessi e con una verità più profonda che attiene a ciò che siamo, prima ancora che a ciò che facciamo.

È una verità a cui guardiamo sgomenti poche volte, perché ci vuole coraggio a chiamarci per nome, ad ammettere “quello sono io” e continuare a vivere sapendo di essere colpevoli e di aver goduto solo di un’amnistia e non di una piena assoluzione per non avere commesso il fatto.

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