di Susanna Stacchini

Ci avviamo ormai alla fine di novembre e come ogni anno è stato un susseguirsi di conferenze, meeting, rassegne stampa, salotti televisivi e quant’altro, tutti per dire no alla violenza sulle donne. Peccato però che in troppi considerino normale avere intitolato l’aeroporto Malpensa di Milano a Silvio Berlusconi, o averlo omaggiato con un francobollo dedicato. O addirittura aver preso in seria considerazione l’ipotesi che potesse diventare Presidente della Repubblica. Un soggetto che attraverso comportamenti e citazioni non ha mai fatto mistero di quella che era la sua considerazione delle donne.

Storica la promessa fatta ai calciatori del Monza. “Se vincete con le grandi, vi porto un pullman di tr*ie”. Pure derubricare questa battuta a una goliardata da spogliatoio su cui farsi due risate non è certo espressione di sensibilità verso la condizione della donna. Troppo comodo circoscrivere la violenza sulle donne alla sfera penale. Chi può non dirsi indignato per una donna morta ammazzata, o pestata a sangue e ridotta in fin di vita, fatta eccezione per l’autore? Nessuno. Invece, il terreno davvero scivoloso è quello della vittimizzazione secondaria che chiama tutti in causa: gente comune, istituzioni e media. Alla base di un fenomeno tanto odioso c’è un pensiero comune, ancora legato a retaggi culturali obsoleti e retrogradi.

La vittimizzazione secondaria è una violenza subdola, invisibile e inaspettata per la donna. Tanto è il peso del pregiudizio che la donna vittima di violenza, scampata alla morte, sente di dover dimostrare di non essersela cercata. La donna vessata, insultata, denigrata e minacciata, ma non picchiata a sangue, subisce altra violenza nel percepire sminuita la gravità di quanto ha subito. La gente, trincerandosi dietro un finto rispetto della sfera personale, la ripaga con un silenzio assordante, negandole empatia e solidarietà. E intanto proliferano covi di vipere pronte a sparare sentenze, in virtù di una morale ipocrita e infima, fino ad affiggerle la loro “lettera scarlatta”.

E’ vittimizzazione secondaria tartassare le donne con lo stereotipo della donna bella, vincente e “magra”, pur sapendo di stare incentivando disturbi alimentari e psicologici, in genere ai danni delle più giovani. La donna subisce violenza ogni volta che, occupando un posto di lavoro ambito, scatta l’automatismo per cui quel successo non viene attribuito al merito, bensì alla solita raccomandazione, magari a sfondo sessuale. Ma ancora più gravi e inquietanti sono le responsabilità di Istituzioni e politica, ree di non trattare come priorità assoluta welfare, cultura, lavoro e sanità.

La donna subisce violenza quando si pretende che possa vivere con uno stipendio da fame, meravigliandosi poi se cerca di arrotondare con il mestiere più antico del mondo. Subisce violenza quando, non esistendo alcun ascensore sociale, le viene negata la possibilità di emanciparsi da una condizione di povertà. Subisce violenza quando, a parità di lavoro, percepisce uno stipendio inferiore a quello del collega maschio. Subisce violenza quando è povera, pur lavorando dodici ore al giorno, magari sette giorni su sette. Subisce violenza quando deve scegliere fra lavoro e famiglia, o quando deve rinunciare ad avere figli, perché sa che non potrebbe mantenerli. Subisce violenza anche la donna che figli ne ha, ma è nelle condizioni di non poter garantire loro un’esistenza decorosa.

Subisce violenza la donna che, per trovare lavoro, deve firmare le dimissioni anticipate da usare in caso di gravidanza. Subisce violenza la donna alla quale viene di fatto negato il diritto all’aborto o quella che non ha soldi per la pillola anticoncezionale. Subisce violenza la donna alla quale non viene garantita la possibilità di curarsi, o quando, vecchia e non autosufficiente, non può permettersi un’assistenza adeguata e una morte dignitosa.

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