I cinque giorni che hanno cambiato la storia d’Italia cominciano con due contropiedi micidiali: prima Sinisa Mihajlovic si era fatto soffiare la palla a centrocampo e il numero dieci Fausto Pizzi aveva battuto il portiere Fabrizio Lorieri. Poi era toccato al tedesco Thomas Hassler farsi sorprendere, con Marco Branca che aveva segnato da fuori area il 2 a 0 per l’Udinese. A fine stagione la squadra friulana retrocederà in Serie B, ma in quel tardo pomeriggio del 23 gennaio 1994 si gode la prima vittoria della sua storia allo Stadio Olimpico, in casa della Roma. Per i tifosi giallorossi quella è una domenica nera: anche per Antonio Padellaro, il fondatore di questo giornale, che è tra i 44mila spettatori presenti sugli spalti. La Curva Sud e i settori vicini si cominciano a svuotare già prima della fine della partita: non sono neanche le 16 e 30 quando circa 20mila persone escono dall’Olimpico, defluendo verso viale dei Gladiatori. La strada è transennata per permettere il passaggio delle camionette dei Carabinieri e dei blindati della Polizia. Attorno è tutta una folla di maglie e bandiere giallorosse: famiglie, bambini, persone incazzate perché la loro squadra ha appena perso due a zero in casa. È in quell’istante che Salvatore Benigno impreca in siciliano.

Giochi da picciriddi A diverse centinaia di metri dallo stadio, nella piccola radura della riserva di Monte Mario, ci sono due giovani seduti sull’erba. Da quel punto l’Olimpico si vede dall’alto, anche se è impossibile capire cosa succede in campo. A Benigno, però, della partita non importa nulla: è molto più interessato a quello che accade in viale dei Gladiatori, dove era stata parcheggiata una Lancia Thema metallizzata. Quel posto lo avevano scelto con cura, tenendolo occupato per ore con un’altra auto. È verso quella zona che guarda Benigno, quando estrae un piccolo telecomando nero e quadrato. È uguale ai congegni che si usano per manovrare le automobiline radiocomandate, quei giocattoli da picciriddi, da bambini. Sarà un caso ma è proprio così che lo chiamano a lui: ‘u picciriddu, perché ha solo 27 anni e studia Medicina all’Università. Caratteristiche davvero poco comuni tra gli uomini d’onore di Brancaccio, il quartiere dei fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, i boss “propulsori” della strategia stragista: bombe per costringere lo Stato a scendere a patti con Cosa nostra. E forse non solo per questo.

Gaspare Spatuzza

“Neanche i talebani” – In quell’inverno del 1994 il giovane Benigno fa parte del gruppo di fuoco che organizza le stragi. È per questo che è nervoso: quel telecomando non funziona. Forse il segnale non arriva? È troppo lontano dall’obiettivo? O c’è qualcosa che fa interferenza? Benigno si alza in piedi, continua a pigiare i tasti, ma non succede niente. All’ennesima imprecazione, l’altro uomo seduto sull’erba, rompe un silenzio che sembrava secolare: “Ora lì ci sono più cristiani e civili che sbirri e carabinieri: non ne vale più la pena. Blocchiamo tutto e andiamocene, veloce”. Gaspare Spatuzza ancora non lo sa, ma in quel momento è appena cambiata la storia d’Italia. Soprannominato ‘u tignuso, perché aveva cominciato a perdere i capelli quand’era ancora giovane, è un ex imbianchino diventato il killer di fiducia di Giuseppe Graviano. Al suo capo lui si rivolge con deferenza: lo chiama Madre natura. Che senso aveva quel soprannome? “Era la madre della nostra esistenza, non solo mia, ma anche degli altri: la morte come te la poteva dare così te la poteva togliere”, ha spiegato Spatuzza, che ha avuto un ruolo operativo in tutte le stragi realizzate da Cosa nostra: ha svelato il depistaggio delle indagini su via d’Amelio e ha raccontato di aver partecipato al furto del Fiat Fiorino esploso in via dei Georgofili, a Firenze. Poi ha coordinato il gruppo di uomini che ha preparato le autobombe esplose la notte tra il 27 e il 28 luglio 1993 in via Palestro a Milano e davanti alle basiliche di San Giovanni in Laterano e San Giorgio in Velabro a Roma. Sono passati cinque mesi e ‘u tignuso è di nuovo nella Capitale per continuare a fare quello che in quel periodo gli riesce meglio: organizzare stragi di civili innocenti. Tra Firenze e Milano sono già morte dieci persone, comprese due bambine di 9 anni e appena 50 giorni. All’Olimpico, però, doveva essere diverso: “Dovevamo fare qualcosa che neanche i talebani hanno mai fatto”, racconterà molti anni dopo, dopo aver saltato il fosso per collaborare con la magistratura. Quella Lancia Thema parcheggiata in viale dei Gladiatori, infatti, era imbottita con 120 chili di tritolo. Doveva esplodere al passaggio del pullman dei carabinieri impegnati nel servizio d’ordine allo stadio: avrebbe ucciso centinaia di militari, tifosi, persone comuni ammazzate in una domenica qualunque. Per moltiplicare il potenziale di devastazione i mafiosi avevano inserito all’interno della Lancia anche un bidone colmo di tondini di ferro, spessi tra uno e i due centimetri: la deflagrazione li avrebbe trasformati in enormi proiettili che avrebbero ferito e sfigurato i passanti. Sarebbe stata un’ecatombe, probabilmente la strage più efferata dal Dopoguerra.

Stadio Olimpico

Destabilizzare per stabilizzare? – Per fortuna quel telecomando non funzionava: all’Olimpico non ci fu nessuna strage. Neanche nelle settimane successive: l’attentato allo stadio, infatti, non venne più replicato. Quello rimase praticamente l’ultimo formale atto di guerra allo Stato tentato da Cosa nostra. Sarà perché nessuno si fece male, fatto sta che per moltissimo tempo questa storia è rimasta praticamente sconosciuta: la più ignota di tutte le stragi organizzata dai boss. Per diversi anni gli investigatori hanno persino ignorato quale fosse la data esatta scelta dai mafiosi: all’inizio sembrava dovesse essere la domenica di Roma-Lazio, derby d’andata giocato a fine ottobre. Per avere una ricostruzione certa, però, si è dovuto aspettare la collaborazione di Spatuzza nel 2008: è da quel momento che le indagini sui misteri delle stragi ricevono nuovo impulso. Riguarda anche il fallito attentato all’Olimpico l’inchiesta che ancora oggi viene portata avanti dalla procura di Firenze. Nonostante trent’anni di processi, infatti, sono ancora numerosi i quesiti irrisolti delle bombe degli anni Novanta. A cominciare dai cosiddetti mandanti a volto coperto, cioè quelli che sarebbero stati ispiratori della strategia di Cosa nostra: con quest’accusa è ancora indagato Marcello Dell’Utri, storico braccio destro di Silvio Berlusconi, che era pure lui sotto inchiesta fino al giorno della morte. Secondo i procuratori aggiunti Luca Tescaroli e Luca Turco, l’ex senatore ha istigato i Graviano “a organizzare e attuare la campagna stragista e, comunque, a proseguirla, al fine di contribuire a creare le condizioni per l’affermazione di Forza Italia”. Nel decreto di perquisizione notificato all’ex senatore nelle luglio scorso i pm ipotizzano che le stragi del ’93 servirono “per indebolire il governo Ciampi“, cioè l’esecutivo che in quel momento guidava il Paese, diffondendo “il panico e la paura tra i cittadini, in modo da favorire l’affermazione del progetto politico di Berlusconi e Dell’Utri”. In pratica le stragi di Firenze, Roma e Milano, più quella fallita allo stadio Olimpico, dovevano servire a terrorizzare l’Italia in modo da aprire la strada al nuovo partito fondato dall’uomo di Arcore: bisognava destabilizzare il Paese, in modo che qualcuno potesse poi stabilizzarlo. Si tratta ovviamente di accuse mai dimostrate, in passato già archiviate più volte. Le contestazioni ipotizzate dalla procura di Firenze sullo storico braccio destro di Berlusconi, però, gettano una luce diversa non solo sul fallito attentato allo stadio Olimpico, ma anche su alcuni eventi accaduti in quel periodo. Sono tutti fatti che avvengono nei giorni immediatamente precedenti e successivi a quella vittoria dell’Udinese in casa della Roma. Circostanze che cambiano la storia del nostro Paese.

Giuseppe Graviano

La strage ordinata all’aperitivo – In realtà comincia tutto qualche giorno prima: il 13 gennaio il governo di Carlo Azeglio Ciampi dà le dimissioni. Tangentopoli sta ormai spazzando via l’intera classe politica che governa l’Italia da cinquant’anni e i partiti sono tutti d’accordo: bisogna tornare a votare con la nuova legge elettorale maggioritaria. Tre giorni dopo il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro decide che si andrà alle urne il 27 e 28 marzo 1994. Cosa nostra e i suoi amici si muovono: dopo le stragi di luglio e le ricognizioni di ottobre e dicembre, Spatuzza torna a Roma, dove va in giro con Antonio Scarano, detto Saddam, un narcotrafficante calabrese che era diventato uomo di Matteo Messina Denaro, il boss di Castelvetrano, legatissimo a Giuseppe Graviano. È proprio con il suo capo che Spatuzza ha un appuntamento: il boss lo convoca in un locale di via Veneto. È il 21 gennaio del 1994, un venerdì, e siamo nel pieno centro della capitale: in zona c’è l’ambasciata degli Stati Uniti, un sacco di ministeri e alberghi di lusso diventati famosi con la Dolce vita. Come l’hotel Majestic, un cinque stelle reso immortale da Federico Fellini. A neanche cinquecento metri ci sono i tavolini del bar Doney, un locale elegante e alla moda: Spatuzza arriva in macchina e individua subito Graviano, che è vestito con un elegante cappotto blu. I due si conoscono sin da quando erano ragazzini: ‘u tignuso sostiene di riuscire a intuire l’umore del suo capo anche solo con una rapida occhiata. “Quel giorno era molto felice, come se avesse vinto alla lotteria“. Graviano è un latitante, per lui rimanere in giro può essere pericoloso: invece di salire subito in macchina con Spatuzza, però, invita il suo uomo a entrare al bar Doney per bere qualcosa. Ancora prima di ordinare, il boss comincia a parlare: dice che loro, cioè i mafiosi, avevano “chiuso tutto e avevano ottenuto tutto quello che cercavamo“, spiega che “c’era in piedi una cosa e se andava a buon fine ne avremmo avuti dei benefici”. Poi fa i nomi, uno in particolare: “Quello di Berlusconi, io gli chiesi se fosse quello di Canale 5 e lui rispose in maniera affermativa. Aggiunse che in mezzo c’era anche il nostro compaesano Dell’Utri. Quindi mi spiega che grazie a queste persone di fiducia che avevano portato a buon fine questa situazione, che non erano come quei quattro crasti dei socialisti”. I crasti, cioè i cornuti, erano quelli del Psi che secondo alcuni pentiti avevano ricevuto i voti di Cosa nostra alle politiche del 1987 senza però poi garantire alcun ritorno all’organizzazione. Questa volta, invece, Graviano assicura che la situazione è diversa: “Mi dice che grazie a loro ci eravamo messi addirittura il Paese nelle mani“. Che intende dire? Spatuzza ci tiene a essere preciso: “Per Paese intendo l’Italia“. Il suo capo sorseggia l’aperitivo, poi ordina un’altra strage: “Mi dice che l’attentato ai carabinieri si deve fare lo stesso perché gli dobbiamo dare un altro colpetto, il colpo di grazia“.

Marcello Dell’Utri

Morti che non ci appartengono – Spatuzza capisce subito tutto al volo, perché non è la prima volta che il suo boss parla di colpire i carabinieri: lo aveva fatto anche qualche mese prima, durante un incontro a Campofelice di Roccella, un paesino sul mare della Sicilia. Quella volta l’ex imbianchino si era lamentato per la strage di Firenze, dove erano state uccise anche Nadia e Caterina Nencioni, due bambine. “Ci siamo portati dietro morti che non ci appartengono“, dice ‘u tignuso. Al bar Doney, però, Graviano è irremovibile: bisogna dare il colpo di grazia. “Disse che i calabresi già si erano mossi…”. Tre giorni prima, il 18 gennaio, all’altezza dello svincolo di Scilla sulla Salerno-Reggio Calabria, la ‘ndrangheta aveva ucciso i carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo. Un duplice omicidio che per il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo rappresenta la prova del coinvolgimento della ‘ndrine nel piano di attacco allo Stato organizzato da Cosa nostra. Per questo motivo Graviano è stato condannato all’ergastolo in Appello anche per l’eliminazione di quei due militari. Durante il processo, ribattezzato ‘Ndrangheta stragista, sono stati puntati i riflettori sull’incontro al bar Doney di via Veneto, sul quale avevano già indagato i pm della procura di Palermo. Negli stessi giorni in cui Graviano faceva a Spatuzza i nomi di Berlusconi e Dell’Utri, la Dia ha scoperto che proprio l’ex senatore alloggiava a poche centinaia di metri: il 18 gennaio pernotta all’hotel Majestic, dove sta preparando il debutto di Forza Italia. Ci lavora in gran segreto dal 1992, quando assume come consulente il politologo Ezio Cartotto: comincia così l’Operazione Botticelli, il piano che porterà alla nascita di un nuovo partito. Per qualche motivo negli anni successivi ad Arcore cercheranno sempre di spostare in avanti il momento dell’ingaggio del politologo. “Berlusconi ha detto che fu ispirato a gennaio del 1994 a scendere in campo per salvare l’Italia, tutte balle“, dirà Cartotto, spiegando di essere stato contattato da Dell’Utri “dopo l’omicidio di Salvo Lima” e “prima della strage che uccise Giovanni Falcone“: quindi tra il marzo e il maggio del 1992, quando Tangentopoli era ancora alle battute iniziali e i partiti della Prima Repubblica governavano ancora il Paese. In tutta questa storia, evidentemente, qualcuno era in grado di prevedere il futuro.

Il bar Doney a Roma

Gli incontri di Marcello – In quei giorni di gennaio del 1994, l’Operazione Botticelli è quasi ultimata: adesso è il momento di svelare al Paese la nascita di Forza Italia. Per questo motivo Dell’Utri arriva a Roma e alloggia al Majestic, quello che all’epoca era il suo albergo preferito. L’ex senatore lascia un ricordo indelebile nei dipendenti dell’hotel, che infatti racconteranno i particolari di quel soggiorno anche molti anni dopo, quando saranno interrogati dagli investigatori. Spiegheranno, per esempio, che Dell’Utri aveva l’abitudine di ricevere la gente al bar dell’albergo. E in quei giorni incontrava soprattutto persone con “chiara provenienza calabrese e siciliana, dal momento che parlavano con marcato accento dialettale“. Il cameriere che prendeva le ordinazioni ne è sicuro: essendo nato in Calabria, conosceva bene quel dialetto. Chi erano quei siciliani e quei calabresi incontrati da Dell’Utri proprio nei giorni in cui veniva lanciata Forza Italia, il partito azienda di Berlusconi? Hanno niente a che vedere con gli incontri del siciliano Graviano nel vicinissimo bar di via Veneto? “Non è che la fretta di Graviano per portare a termine il fallito attentato all’Olimpico era legata al fatto che la settimana dopo sarebbe stata annunciata la discesa in campo di Berlusconi?“, si è chiesto il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Lombardo, nella requisitoria del processo ‘Ndrangheta stragista. Un’ipotesi sempre negata dai diretti interessati e che fino a oggi non è stata mai dimostrata in alcun modo.

La distanza tra il Majestic e il Doney

Il miracolo all’Olimpico – Di sicuro c’è solo che dopo aver incontrato il suo capo al bar Doney, Spatuzza si mette all’opera. Gli uomini delle stragi sono già tutti a Roma: c’è Francesco Giuliano detto Olivetti, perché quando gli affidavano un compito era preciso come un computer, c’è Cosimo Lo Nigro, noto anche come Bingo perché era appassionato di scommesse all’ippodromo, ma pure Salvatore Grigoli, per tutti il Cacciatore, il killer che aveva sparato a padre Pino Puglisi. Stanno tutti a Torvajanica, in una villetta messa a disposizione da un uomo di Scarano. Secondo Graviano, però, sono in troppi, si rischia di dare nell’occhio: Grigoli e Giuliano vengono rispediti in Sicilia. D’altronde i sopralluoghi allo Stadio Olimpico li avevano già fatti a ottobre. Anche l’automobile l’avevano già trovata grazie a Luigi Giacalone, un mafioso che vendeva macchine: è lui che fornisce una Lancia Thema metallizzata rubata a Palermo. I mafiosi cancellano i numeri di serie dal telaio e dal motore, sostituiscono le targhe e rinforzano pure gli ammortizzatori: il timore era che l’auto si abbassasse troppo sulle ruote posteriori a causa del peso del tritolo e dei tondini di ferro. Spatuzza si vanterà anche di aver rimosso all’ultimo minuto il porta bollo della macchina: sopra, infatti, c’era stampato il nome dell’agenzia di assicurazioni di Nino Mangano, un altro dei boss di Brancaccio. Era Mangano che aveva fornito gli attrezzi per lavorare l’esplosivo: estratto dagli ordigni inesplosi della Seconda guerra mondiale, veniva triturato e poi pressato in forme che alla fine somigliavano a enormi Parmigiani, piazzati a bordo dell’automobile. Benigno, nel frattempo, si occupava della parte elettrica: provava il telecomando delle automobiline dopo averlo modificato, collegandolo ad alcune lampadine. ‘U picciriddu schiacciava i pulsanti e le luci si accendevano: il congegno funzionava. Subito dopo la fine della partita, però, qualcosa deve essersi guastato: quel telecomando non risponde più. Benigno ci prova, ma niente. I pullman coi carabinieri ormai sono passati oltre la Lancia Thema, Spatuzza capisce che si rischia di uccidere soltanto centinaia di civili e ordina al suo complice di fermarsi. I due montano a bordo di una motocicletta, una Suzuki, la stessa che avevano usato per arrampicarsi fin lì, e cominciano a scendere dal Monte Mario. Benigno, però, insiste: dal sedile posteriore della moto continua a pigiare i tasti del telecomando. Spatuzza se ne accorge e si arrabbia: “Lui era convinto che stando più vicini all’autobomba poteva dare l’impulso, però grazie a Dio questo non è avvenuto. È stato un miracolo“. In quei giorni non è l’unico a parlare di miracoli.

La discesa in campo

Il Paese che amo – “Diamo ancora qualche ora ai miracoli ma ormai non ci sono più spazi. Da domani noi entriamo nella fase operativa. Da domani si fa sul serio”. Mentre allo stadio Olimpico di Roma Spatuzza e Benigno scappano a bordo della motocicletta, seicendo chilometri più a Nord, allo stadio San Siro di Milano, Silvio Berlusconi osserva il suo Milan battere il Piacenza. A fare notizia, in quel 23 gennaio 1994, non sono i gol di Massaro e Papin, ma le dichiarazioni dell’uomo di Arcore ai giornalisti: “Io ho esaurito la mia fiducia, ormai ho capito che certi protagonisti politici vivono ancora in un sistema elettorale che non c’è più, hanno deciso di non decidere, tradendo così lo spirito di una legge elettorale che loro stessi hanno voluto e votata”. Quindi Berlusconi si candida, è ormai certo. Ma quando annuncerà ufficialmente la sua discesa in campo? “Tra lunedì e mercoledì”, risponde lui. Rispetterà i tempi: 72 ore dopo, il 26 gennaio, nelle case degli italiani entra il discorso che inaugura la Seconda Repubblica. Comincia con l’ormai famigerato “l’Italia è il Paese che amo” e finisce con “un nuovo miracolo italiano“. Berlusconi e i suoi ci hanno lavorato per tutto la giornata precedente nella villa di Macherio: nonostante le apparenze, però, quello inquadrato non è il suo studio ma il capanno degli attrezzi. Doppiopetto e cravatta scura, camicia azzurra, l’uomo di Arcore registra il discorso per dodici volte e alla fine preferisce usare la prima versione. In totale dura 9 minuti e 25 secondi, viene inviato in Vhs a tutti i principali telegiornali del Paese: i canali Fininvest lo trasmettono integralmente a reti unificate, la Rai si limita – come è giusto – a farne una sintesi.

L’arresto dei Graviano

Infami e Padri eterni – Non si sa se i fratelli Graviano abbiano o meno ascoltato in tv l’annuncio di Berlusconi. Quello che si sa è che la sera del 25 gennaio 1994, mentre a Macherio si registra il discorso della discesa in campo, negli uffici del Nucleo operativo dei carabinieri di Palermo squilla il telefono: una fonte segreta spiega che per prendere i boss di Brancaccio bisogna seguire Salvatore Spataro, un insospettabile infermiere che il giorno dopo prenderà un treno in direzione Milano. Gli uomini del capitano Andrea Brancadoro sono increduli, ma il mattino seguente verificano comunque l’informazione: Spataro non si presenta a lavoro, ma va in stazione e sale su un vagone letto insieme alla sua famiglia. Con lui c’è anche suo cognato, Giuseppe D’Agostino: i militari non possono saperlo, ma quei due uomini in passato hanno già dato una mano a Graviano. Uno gli ha ceduto la sua carta d’identità, mentre l’altro l’ha ospitato in casa. Ora D’Agostino sta andando a Milano perché è lui a dover chiedere un favore al boss: deve trovare un lavoro nella città del Nord, in modo da trasferirsi in Lombardia e consentire a suo figlio Gaetano di giocare nelle giovanili del Milan. Quel ragazzino ha talento: tutti quelli che lo vedono giocare dicono che un giorno finirà in Nazionale (e hanno ragione). Grazie a un imprenditore amico, D’Agostino era già riuscito a ottenere un provino a Milanello: a farglielo avere era stato Marcello Dell’Utri, che però negherà sempre di aver conosciuto queste persone. Sarà smentito dalle agende delle sue segretarie (“D’Agostino Giuseppe è venuto insieme a Carmelo Barone”) e da un dirigente delle giovanili della squadra: fu il braccio destro di Berlusconi a caldeggiare il provino per il ragazzino siciliano. È un futuro rossonero quello che sogna D’Agostino quando la mattina del 27 gennaio arriva finalmente alla stazione centrale: sul treno, però, ci sono anche quattro carabinieri in incognito. A Milano D’Agostino e gli Spadaro incontrano Giuseppe Graviano e la sua compagna, Bibiana Galdi. C’è anche un’altra coppia, quella composta da Filippo Graviano e Francesca Buttitta, ma i militari non li riconoscono. Comincia un pedinamento lungo le vie dello shopping meneghino: via Monte Napoleone, la Rinascente, poi l’aperitivo al Camparino in galleria. Infine la cena in via Procaccini, zona cimitero Monumentale, dove c’è un ristorante di quelli buoni: si chiama Gigi il Cacciatore e i Graviano lo frequentano spesso. Qualche volta ci hanno portato anche la madre, che si faceva sempre il segno della croce prima di cominciare a mangiare. Quella sera, invece, qualcuno sostiene che stesse per raggiungerli anche Messina Denaro, ma alla fine ha preferito andarsene in Svizzera con Andrea Haslener, una ragazza austriaca che sta frequentando in quel periodo: è l’inizio di una latitanza lunga quasi trent’anni. Il blitz scatta dopo l’antipasto: i carabinieri in borghese entrano in azione. Graviano resta impassibile: “Siete dei Ros?”, chiede con calma. “No, siamo del nucleo operativo”. “Allora adesso diventerete più importanti”. Quella sera, in quel ristorante in zona Monumentale, a Milano, finiscono le stragi.

Dell’Utri e Berlusconi

Lo show di Madre natura – Chi ha tradito i fratelli Graviano? Qualcuno dei loro uomini? E come mai con il loro arresto si fermano le bombe? Perché Spatuzza e gli altri non hanno più tentato di replicare l’attentato allo stadio Olimpico? Anche se i Graviano finiscono in carcere, infatti, in libertà ci sono ancora boss molto potenti: Messina Denaro, Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca fanno tutti parte del fronte stragista di Cosa nostra. Libero c’è anche Bernardo Provenzano, che però di quella strategia di bombe e terrore – portata avanti da Totò Riina – non è mai stato un sostenitore. Ma allora la strage allo stadio è fallita davvero solo per un guasto al telecomando? O è successo anche qualcos’altro? Trent’anni dopo la risposte a queste domande le conoscono in pochissimi: un numero che diminuisce continuamente. Tra queste persone c’è anche Graviano, che per quasi tre decenni è rimasto muto. Chiuso nella sua cella al 41 bis ha osservato Berlusconi vincere le elezioni per tre volte, mentre l’ala militare di Cosa nostra veniva annientata: centinaia di boss finivano in galera, decine e decine decidevano di collaborare con la giustizia. Anche qualcuno tra i suoi fedelissimi si è fatto pentito. Uno dei primi fu Pietro Romeo, killer e ladro d’auto: ai pm disse che una volta Giuliano, l’uomo chiamato Olivetti, gli raccontò di un politico di Milano che parlava con Graviano, chiedendogli di organizzare le stragi. Poi fu Spatuzza a confidargli che a chiedere le bombe era Berlusconi: dichiarazioni fumose, de relato e poco credibili. Che infatti rimasero fuori dal processo a Dell’Utri. Nonostante tutto, però, nel 2014 l’ex senatore venne comunque condannato in via definitiva per concorso esterno a Cosa nostra a sette anni di carcere: ne ha scontati quattro, poi è andato ai domiciliari per motivi di salute, nel dicembre del 2019 è tornato libero. Non passano neanche due mesi e Graviano decide di parlare. È il gennaio del 2020 e il boss chiede d’intervenire davanti alla corte d’Assise di Reggio Calabria, che sta celebrando il processo sulla ‘Ndrangheta stragista: comincia in quel momento un suo personalissimo show fatto di messaggi trasversali, ricostruzioni inquietanti e accuse neanche troppo velate. Graviano non è un collaboratore e non si è mai pentito di nulla: quindi può mentire quando sostiene di avere incontrato per tre volte Berlusconi, con il quale era in affari grazie agli investimenti miliardari compiuti dal nonno negli anni ’70. Secondo il boss esisterebbe addirittura una “carta scritta” che proverebbe quei rapporti economici: gli investigatori, però, finora non l’hanno mai trovata. Per qualche motivo, poi, Graviano ci ha tenuto a sostenere che l’idea di fondare Forza Italia risale al 1992, non agli anni successivi, esattamente come aveva fatto Cartotto: “Il partito era già preparato nel 1992, prima della strage di Capaci. Non come dicono loro nel 1993”. Il momento più delicato, però, è arrivato quando il boss ha parlato di imprenditori di Milano” che non volevano fermare le stragi. Chi erano questi imprenditori? “Io per il momento non mi ricordo“, ha risposto il boss, sempre in equilibrio tra la minaccia e la calunnia. Per esempio, anche se dice di essere stato socio occulti di Berlusconi, sostiene di non aver mai conosciuto Dell’Utri. Ai giudici, poi, ha ripetuto più volte la stessa richiesta: “Voi dovete indagare sul mio arresto, indagate sul mio arresto e scoprirete chi sono i veri mandanti delle stragi”. La fine della sua latitanza è per Madre natura una sorta di ossessione: “Io facevo una vita normale, avevo una copertura favolosa“. Garantita da chi? E perché a un certo punto quella copertura è saltata? ”Lo sai cosa scrivono sulle stragi? Nelle sentenze c’è scritto che le stragi si sono fermate grazie all’arresto del sottoscritto“, diceva intercettato in carcere il boss di Brancaccio nel 2017, mentre parlava con Umberto Adinolfi, il suo compagno di ora d’aria. In effetti tra le cose che ha detto questa è sicuramente l’unica vera: non un solo colpo è stato sparato nella Penisola da quel blitz in un ristorante di Milano. Dal fallito attentato all’Olimpico erano passati quattro giorni, mentre soltanto 24 ore prima Berlusconi era sceso in campo promettendo un nuovo miracolo italiano.

Matacena, Dell’Utri e Previti

Trent’anni dopo – L’ex presidente del consiglio è morto il 12 giugno del 2023 all’età di 86 anni: in quel momento era ancora indagato dai pm di Firenze per le stragi di via dei Georgofili, di via Palestro a Milano, alle basiliche romene e per il fallito attentato all’Olimpico. Nel registro degli indagati rimane ancora oggi il nome del suo storico braccio destro, Marcello Dell’Utri, fedelissimo anche dopo la morte: se si esclude la “quasi moglie” Marta Fascina, l’ex senatore è l’unica persona citata nel testamento dell’uomo di Arcore a non far parte della famiglia. Berlusconi gli ha lasciato in eredità trenta milioni di euro, dopo che già nel maggio del 2021 aveva ordinato di riconoscere a Dell’Utri vitalizio da 30mila euro al mese, alla fine di una trattativa documentata dagli investigatori. Secondo le indagini, l’ex senatore ha ricordato ad Alfredo Messina, il tesoriere del partito, che “pagare i suoi difensori è pagare anche la difesa di Berlusconi e di Forza Italia, quasi a significare che, al contrario, potrebbero esserci pericoli per l’ex premier”. Era il periodo in cui Dell’Utri era ancora sotto processo per la cosiddetta Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra: era accusato di aver veicolato al primo governo Berlusconi la minaccia dei boss mafiosi. Dopo una condanna in primo grado, l’ex senatore è stato completamente assolto sia in Appello che in Cassazione. In quelle sentenze i giudici di Palermo ricostruiscono anche il fallito attentato allo stadio Olimpico: secondo la corte d’Assise se la strage fosse effettivamente avvenuta “avrebbe messo definitivamente in ginocchio lo Stato, costringendolo a capitolare a fronte delle sempre più pressanti minacce provenienti dall’organizzazione mafiosa siciliana”. Per i giudici dell’Appello, invece, “non è azzardato affermare che sarebbe stato un evento capace di cambiare il corso della storia del nostro Paese” sia “per le sue proporzioni (sarebbe stata una strage senza precedenti per numero di vittime)” ma anche per “la situazione di particolare debolezza delle istituzioni con un governo dimissionario e un’infuocata campagna elettorale in vista, agitata e avvelenata dalle ‘scorie’ di Tangentopoli”. Salvatore Benigno, ‘u picciriddu che avrebbe dovuto far saltare in aria l’autobomba in viale dei Gladiatori, è stato arrestato nel 1995 ed è stato condannato all’ergastolo. Dieci anni dopo si è laureato in Medicina in carcere, con una tesi in Ortopedia. Non ha mai collaborato con la giustizia. Recentemente ha ottenuto un primo via libera per una parziale richiesta di revisione: le sue responsabilità nella strage di via Palestro saranno riesaminate. Dopo che lui e Spatuzza scapparono dall’Olimpico a bordo della motocicletta, la Lancia Thema venne recuperata da Lo Nigro e Scarano. Visto che si erano già sbarazzati delle chiavi, tentarono di aprire la portiera dell’auto con uno “spadino” ma vennero notati da un carabiniere: “Quella macchina non può stare lì“. “Siccome si è guastata e abbiamo perso le chiavi, stiamo cercando di spostarla…”, si giustificarono i mafiosi. Poi fecero rimuovere l’automobile con un carro attrazzi. Su questa vicenda Antonio Padellaro, tra gli spettatori presenti allo stadio quel giorno, ha scritto un libro (La Strage e il miracolo, Paper first) e un documentario, in cui ipotizza che l’attentato possa essere fallito per una causa diversa da un semplice guasto al telecomando. Dopo il suo show in aula al processo ‘Ndrangheta stragista, invece, Giuseppe Graviano è tornato a chiudersi nel suo storico silenzio. È custode di numerosi segreti, a cominciare dalla verità sulla nascita di suo figlio Michele, concepito mentre lui era già all’ergastolo. Per le accuse lanciate al processo di Reggio Calabria non risulta che gli avvocati di Silvio Berlusconi lo abbiano finora denunciato per calunnia.

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