“Vittime di una strage non solo mafiosa volta a ricattare lo Stato. La cittadinanza pose”. Dovrebbe forse ora recitare così la lapide in ricordo della Strage di via Palestro, a Milano, che causò la morte del vigile urbano Alessandro Ferrari, dei vigili del fuoco Stefano Picerno, Sergio Pasotto e Carlo La Catena e del venditore ambulante Moussafir Driss, uccisi dall’autobomba piazzata davanti al Padiglione d’arte Contemporanea (PAC) il 27 luglio 1993. Trent’anni fa.

Fino al luglio 2013 sul muro del PAC c’era scritto quanto voluto dalla Giunta Formentini nel 1994: “Vittime innocenti di un vile attentato”. Il Consiglio Comunale di Milano nel gennaio 2013, in occasione del ventennale della strage, decise di cambiarne radicalmente il contenuto introducendo il termine “mafiosa” e il movente di quanto accadde. La nuova lapide descriveva l’evento come “una strage mafiosa volta a ricattare lo Stato”. Ora è bene prepararsi ad un possibile nuovo mutamento. La verità faticosamente, ma inesorabilmente, continua a emergere. Emergerà anche nelle sedi giudiziarie. Questo l’auspicio dei familiari delle vittime della Falange Armata che hanno depositato un esposto presso la Procura di Milano a primavera scorsa.

Le indagini potrebbero fare luce, finalmente, su chi si alleò con la mafia in quegli anni.
La Falange Armata e Cosa Nostra rivendicarono con due comunicati diversi, la strage di Milano e gli attentati alle chiese di san Giovanni al Laterano e San Giorgio al Velabro a Roma. Due rivendicazioni simili. I falangisti scrissero che “ogni pazienza e prudenza non ha più motivo di essere, per cui molta gente inerme e innocente sarà costretta purtroppo a piangere e a morire per colpe non sue”. Le lettere che invece, Gaspare Spatuzza fa spedire ai mafiosi che operano a Roma e a Milano, avvisano che “Tutto quello che è accaduto è soltanto il prologo. Dopo queste ultime bombe informiamo la nazione che le prossime a venire verranno collocate di giorno in luoghi pubblici e saranno alla ricerca di vite umane garantiamo che saranno centinaia”.

Impossibile, come sottolinea Giovanni Spinosa, ex magistrato profondo conoscitore della Falange Armata, che i mafiosi sapessero del Comunicato dei falangisti e viceversa. Le date di invio delle lettere e di arrivo lo provano.

Molti dubbi che Spatuzza non chiarisce, nascono anche su chi, in via Palestro imbottì di pentrite e T4 la Fiat Uno che esplose a Milano alle 23,14 del 27 luglio 1993 e su chi predispose le micce. Come viene ben descritto nel libro Attacco alla Stato di Ferruccio Pinotti e Roberto Valtolina i periti escludono decisamente l’utilizzo di un radiocomando a distanza: “La fonte più probabile del fumo presente all’interno dell’abitacolo fu l’accensione di tre micce a lenta combustione, che dimostra competenza da parte degli esecutori”. Gaspare Spatuzza aveva parlato di una sola miccia che Lo Nigro avrebbe predisposto per poi essere innescata dal mafioso di Brancaccio Vittorio Tutino. Un battesimo del fuoco. Non aveva mai fatto nulla del genere. Bizzaro che Cosa Nostra lo metta proprio alla prova in un contesto così complicato.

“Gli inneschi” sostengono i periti “li avrebbero messi gli attentatori all’ultimo momento. Quest’ultima operazione infatti poteva essere effettuata in pochi minuti solo dopo aver parcheggiato l’autovettura Fiat in via Palestro. A questo punto è stato sufficiente accendere le tre micce e allontanarsi a piedi lungo via Palestro. Con l’ausilio di 10 o 12 metri di miccia il tempo per allontanarsi era abbastanza elevato”. Katia Cucchi, collega del vigile urbano Ferrari, ricorda un ragazzo moro e una ragazza bionda, abbracciati, che non appena vedono gli agenti di Polizia Locale, indicarono loro il punto in cui la Uno stava fumando. Probabilmente le stesse due persone (“… una donna bionda e un giovane con i capelli scuri”) che due testimoni videro poco prima dell’esplosione uscire da una Fiat, posizionata proprio nello stesso punto in cui si trovò la Uno che fumava. Così dissero i due testimoni che passarono nuovamente, circa mezz’ora dopo, davanti al PAC. Pochi minuti prima dell’esplosione.

L’ultimo processo che riguardava gli esecutori della strage si svolse contro Marcello Tutino, coinvolto da Spatuzza. Assolto definitivamente nel 2018. La verità giudiziaria, per il momento, sulla strage di via Palestro, indicando gli esecutori materiali e i mandanti interni all’organizzazione criminale “Cosa nostra”, l’ha scritta la Cassazione il 6 maggio 2002, confermando gli ergastoli del processo di primo grado e dell’appello. La Suprema Corte nel 2016 completa il quadro e, in questo caso, grazie alle dichiarazioni di Spatuzza, condanna Cosimo D’Amato, il “pescatore” dell’esplosivo utilizzato a Milano.

La Corte nella sentenza del 2002 ha ritenuto che la strage era collocabile “… nell’ambito di un’unica strategia stragista, volta a ricattare lo Stato per costringerlo a una trattativa in ordine al regime carcerario introdotto con l’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario”. Anche la Falange Armata ricatta lo Stato nei suoi comunicati anche prima e dopo il luglio 1993. In particolare intima a Oscar Luigi Scalfaro, allora Presidente della Repubblica, di sciogliere le Camere. Lo scioglimento avverrà il 16 gennaio 1994. Il 23 gennaio 1994 l’attentato allo Stadio Olimpico fallisce. L’esplosione non avvenne, pare per un malfunzionamento del telecomando che avrebbe dovuto innescare l’ordigno.

Tre giorni dopo, il 26 gennaio 1994, Berlusconi scende in campo. Quattro giorni dopo, il 27 gennaio 1994, i due fratelli Graviano vengono arrestati a Milano. Ma questa è solo storia.

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