Da un lato il caos sulla effettiva scadenza delle concessioni, dall’altro il congelamento del (peraltro minuscolo) aumento dei canoni deciso lo scorso dicembre. Se quest’estate i rincari record decisi da molti lidi hanno convinto gli italiani a optare in massa per le destinazioni straniere, la lobby dei balneari coccolata dalla maggioranza di centrodestra ha continuato a dormire sonni tranquilli. Perché, a quasi due anni dalla sentenza del Consiglio di Stato che ha imposto di mettere a gara le licenze entro la fine del 2023 applicando la direttiva Bolkestein, nulla è cambiato. E ora l’ultima mossa del governo Meloni, cioè l’avvio in forte ritardo della mappatura prevista dal disegno di legge sulla Concorrenza del 2022, consente di scavallare la stagione e arrivare all’autunno quando la Cassazione deciderà sul ricorso di Sib-Confcommercio contro la decisione dei giudizi amministrativi. Con la speranza di veder sfumare pure la scadenza del 2024. Nell’attesa, i gestori continuano a pagare allo Stato un centinaio di milioni l’anno in tutto a fronte di un giro d’affari stimato in 15 miliardi.

Le norme sulla materia sono un ginepraio: la prima versione del ddl Concorrenza firmato da Mario Draghi si era limitata a prevede una ricognizione in vista di una futura riforma, poi il pronunciamento del massimo organo della giustizia amministrativa ha costretto il governo dell’ex presidente della Bce a stabilire la messa a gara entro fine 2023 (salvo indennizzi per chi ha investito e perde la concessione) con la scappatoia del rinvio di un anno in caso di contenziosi in corso o “difficoltà oggettiva”. Caduto Draghi, nel decreto Milleproroghe la nuova maggioranza ha inserito nonostante i dubbi del Colle l’ennesimo prolungamento delle concessioni, a fine 2024 per tutti, intervento giudicato però preventivamente inapplicabile dal Consiglio di Stato. In aprile la Corte di giustizia Ue ha ribadito che vanno fatte le gare. L’esecutivo però non ne vuol sapere e, per continuare a fare melina, ha approvato solo a luglio inoltrato il decreto legislativo che istituisce il “sistema informativo di rilevazione delle concessioni di beni pubblici”. Inutile, secondo gli addetti ai lavori, visto che al ministero delle Infrastrutture già esiste il sistema informativo del demanio marittimo (Sid).

L’obiettivo del ministro e vicepremier Matteo Salvini e della titolare del Turismo Daniela Santanchè è quello di arrivare alla conclusione che le spiagge non sono un bene scarso e di conseguenza, come sostiene il Sindacato italiano balneari, non sono soggette all’applicazione della Bolkestein. Nonostante sia la Corte del Lussemburgo sia la Commissione Ue si siano già espresse molte volte sul punto: Bruxelles nel 2020 ha avviato una procedura di infrazione nei confronti dell’Italia proprio per aver violato quella direttiva. Nel frattempo, a fine giugno i balneari hanno anche incassato una sospensiva dell’aumento del 25% dei canoni oggi risibili versati da chi ha le concessioni, con la motivazione che per stabilirlo il Mit ha fatto riferimento al paniere Istat sbagliato. E per il 24 ottobre attendono il pronunciamento della Cassazione sulla sentenza (sempre del CdS) che ha annullato la validità della proroga al 2033 decisa nel 2018 dal Conte 1.

In questo quadro di totale incertezza i Comuni si muovono in ordine sparso: c’è chi ha già annunciato la decisione di allungare le attuali concessioni a fine 2024, come Rimini, e chi è pronto alla messa a gara di quelle in scadenza come il sindaco di Lecce Carlo Salvemini. Che nel 2020 si era rifiutato di concedere il prolungamento delle concessioni al 2033 e aveva presentato il ricorso da cui è scaturito il pronunciamento dei giudici amministrativi. Sullo sfondo, per chi non avvia le procedure competitive c’è il rischio di contestazioni di danno erariale visto il gettito che potrebbe arrivare all’erario se la gestione della spiaggia andasse al miglior offerente. Basti dire che uno stabilimento come il Twiga, dove una tenda familiare costa 600 euro al giorno, come ammesso nel 2019 da Flavio Briatore che allora ne era socio insieme a Santanchè pagava solo 17mila euro l’anno. Come ha sancito l’adunanza plenaria del Consiglio di Stato, “pensare che questo settore, così nevralgico per l’economia del Paese, possa essere tenuto al riparo dalle regole delle concorrenza e dell’evidenza pubblica, sottraendo al mercato e alla libera competizione economica risorse naturali in grado di occasionare profitti ragguardevoli in capo ai singoli operatori economici, rappresenta una posizione insostenibile”.

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