Il canone demaniale pagato da uno stabilimento balneare per occupare il suolo pubblico su cui conduce la sua attività e guadagna è in media di circa 5mila euro l’anno circa. Ma nella metà delle concessioni in essere si scende sotto i 2mila euro. Il prestigioso hotel Cala di Volpe in Sardegna versa ad esempio all’erario appena 520 euro l’anno per la spiaggia che ha in concessione. Queste cifre irrisori a fronte di ricavi che in media. superano i 250mila euro l’anno. Questo è infatti il fatturato degli stabilimenti che l’Agenzia delle Entrate giudica pienamente in regola con il fisco. Una ristrettissima minoranza visto che le dichiarazioni dei redditi dei gestori di stabilimenti si aggirano introno ai 15mila euro lordi all’anno che vorrebbe guadagnare circa mille euro netti al mese, meno di un bagnino. Una situazione oggettivamente difficile da giustificare che si protrae da tempo immemore e ancora andrà avanti visto che il governo ha rimandato di nuovo le gare per le nuove licenze.

Non paghi, i gestori sono insorti in queste ore contro i rincari dei canoni di locazione delle spiagge decisi dal ministero delle Infrastrutture. Si tratta di un aumento del 25,15% con il canone minimo che sale a di 3.377,50 euro. 25% può sembrare tanto ma ricordiamo i dati da cui si parte. Per un canone medio di 5mila euro significa 1.250 euro in più all’anno su un giro d’affari di 250mila euro. È più o meno l’incasso di 20 ombrelloni e lettini affittati un solo giorno. Non solo perché nel frattempo i gestori hanno a loro volta aumentato le tariffe di lettini e ombrelloni come un po’ tutti si sono accorti la scorsa estate.

“Si tratta di un provvedimento ingiustificato e ingiusto”, scrivono in una nota congiunta Antonio Capacchione, presidente del Sindacato Italiano Balneari aderente a Confcommercio e Maurizio Rustignoli, presidente di Fiba-Confesercenti. “Ingiustificato, secondo i balneari, perché è più del triplo dell’inflazione (8,1%). Ingiusto perché esaspera un meccanismo di determinazione dei canoni sbagliato (in quanto non parametrato all’effettiva redditività dell’area oggetto di concessione), e disincentivante rispetto agli investimenti per il potenziamento dei servizi balneari. Già adesso, infatti, c’è chi paga tanto e chi relativamente poco in riferimento a questi doverosi criteri. Senza parlare delle ormai note ingiustizie sui costi economici dei concessionari balneari con l’aliquota Iva al 22% (a differenza di tutte le aziende turistiche per le quali è al 10%), la Tarsu sull’intera area (anche laddove e quando è improduttiva di rifiuti), o l’Imu ancorché considerati affittuari”. “Chiederemo la revoca del provvedimento e, comunque, la sua sospensione in attesa di un opportuno e doveroso riordino dei criteri di determinazione dei canoni che li renda giusti ed economicamente sopportabili” conclude la nota di Sib e Fiba.

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