Sulla sua scrivania era arrivata una lettera del Garante dei detenuti del Lazio. Raccontava di persone ristrette in carcere che denunciavano di essere state picchiate dagli agenti di Polizia penitenziaria, sottolineava che alcuni di loro presentavano segni evidenti di violenze e chiedeva alla magistratura di “attivarsi al fine di accertare quanto avvenuto”. Poche settimane dopo, uno di quei detenuti, il 21enne egiziano Hassan Sharaf, si uccise impiccandosi con un asciugamano nella sua cella. E ora, per aver cestinato quell’esposto, il procuratore capo di Viterbo Paolo Auriemma – già potente membro togato del Consiglio superiore della magistratura – rischia di finire sotto processo per rifiuto d’atti d’ufficio. La richiesta di rinvio a giudizio è stata depositata il 12 maggio dalla Procura di Perugia, competente per le ipotesi di reato a carico dei colleghi laziali: l’udienza preliminare è fissata al prossimo 29 giugno. Nel capo d’imputazione, il pm Gennaro Iannarone scrive che Auriemma “indebitamente rifiutava l’iscrizione nel registro delle notizie di reato” dell’esposto, “nonostante dallo stesso emergessero specifiche notizie di reato quantomeno ai sensi degli articoli 582 e/o 571″ del codice penale, che puniscono le lesioni personali e l’abuso di mezzi di correzione.

Nelle sette pagine inviate al procuratore l’8 giugno 2018, infatti, il Garante Stefano Anastasia tracciava un quadro circostanziato della visita effettuata il 21 marzo nel carcere Mammagialla di Viterbo. In quell’occasione, scriveva, erano stati svolti “diversi colloqui con persone ristrette” che avevano “riferito di essere state vittime di violenze. Alcuni di questi detenuti”, aggiungeva, “avevano segni evidenti di contusioni e lacerazioni sul corpo” e tutti descrivevano “modalità analoghe” riguardo ai pestaggi, che avvenivano “nei locali docce o in stanze in uso alla sorveglianza” dove non esistevano telecamere. Seguivano una decina di racconti, tra cui quelllo di Hassan Sharaf: il giovane, arrivato in Italia a 14 anni su un barcone, era stato condannato da minorenne per la detenzione di pochi grammi di hashish. Diceva “di essere stato picchiato il giorno precedente da alcuni agenti di polizia penitenziaria, i quali gli avrebbero provocato lesioni in tutto il corpo e con molta probabilità gli avevano lesionato il timpano dell’orecchio sinistro, in quanto non riusciva più a sentire bene e sentiva il rumore “come di un fischio”. Mentre raccontava quanto aveva subito”, proseguiva la denuncia, “Sharaf si spogliava così da mostrare i segni sul suo corpo: la delegazione vedeva molti segni rossi su tutte e due le gambe e diversi segni sul petto (come dei tagli). Il giovane chiedeva l’aiuto del Garante e specificava che questi episodi accadono frequentemente, soprattutto nei confronti dei detenuti stranieri, e che lui aveva molta paura di morire“.

Nonostante questa e le altre testimonianze simili, Auriemma ignora l’esposto per oltre due mesi. Il 31 luglio, con un’integrazione, Anastasia lo informa che Sharaf si è impiccato mentre era in cella d’isolamento ed è morto in ospedale dopo una settimana di agonia: avrebbe dovuto scontare ancora soltanto un mese e 18 giorni in prigione. L’11 agosto, finalmente, il procuratore prende in mano la denuncia. Ma fa una scelta sconcertante: invece di iscriverla nel registro delle notizie di reato – un passaggio formale necessario anche per chiedere l’archiviazione – la cataloga nel registro modello 45, quello dei “fatti non costituenti notizia di reato“. Si tratta di una sorta di “cestino dei rifiuti” in cui le Procure accumulano le segnalazioni valutate insignificanti, ad esempio – per capirci – quelle dei complottisti o dei mitomani: non certo, almeno in teoria, una dettagliata relazione del Garante dei detenuti in cui si ipotizzano violenze compiute da agenti penitenziari. I fascicoli a modello 45, però, hanno una caratteristica: il pm può decidere di archiviarli da solo, senza passare per il vaglio di un gip, che normalmente può imporgli nuove indagini o anche obbligarlo a esercitare l’azione penale. E infatti, imputata a Perugia insieme ad Auriemma (per omissione d’atti d’ufficio) c’è anche Eliana Dolce, la sostituta a cui il procuratore aveva affidato la pratica, e che il 20 settembre 2021, più di tre anni dopo, “ne disponeva direttamente il deposito in archivio, omettendo di compiere le necessarie indagini al fine di acquisire e verificare le dichiarazioni dei detenuti”, sostiene l’accusa.

Per la morte di Sharaf ora sono indagati in nove, tra cui il direttore del carcere, due medici e alcuni ufficiali della Polizia penitenziaria, accusati di omicidio colposo: il procedimento è stato avocato dalla Procura generale di Roma in seguito alla denuncia presentata dagli avvocati Giacomo Barelli e Michele Andreano, che assistono la famiglia del giovane, nei confronti dei pm viterbesi. L’accusa agli indagati è di aver messo il ragazzo in isolamento nonostante “le condizioni del detenuto, soggetto politossicodipendente e con problematiche psichiatriche, richiedessero un attento monitoraggio dei comportamenti per significativo e comunque non trascurabile rischio suicidario”.

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