“Più di tutto vorrei che venisse insegnata l’empatia, la capacità di mettersi nei panni degli altri. Questa capacità la si dovrebbe insegnare fin da piccoli, attraverso la famiglia, la scuola, le istituzioni”: a parlare è Emanuela Pedri, sorella di Sara Pedri, la ginecologa forlivese 32enne scomparsa da quando, il 4 marzo 2021, la sua auto è stata ritrovata nei pressi del ponte di Mostizzolo, al confine con il comune di Cles, in Trentino. Per il caso Pedri la procura di Trento ha chiesto il rinvio a giudizio per Saverio Tateo, ex direttore dell’Unità operativa di ostetricia e ginecologia dell’ospedale Santa Chiara di Trento e per la sua ex vice, Liliana Mereu, con l’accusa di maltrattamento e mobbing.

Emanuela Pedri, la sorella della dottoressa scomparsa, è intervenuta via streaming al convegno Il mobbing nel pubblico impiego. Un male silenzioso, organizzato dal sindacato Fenalt a Trento, portando la testimonianza vissuta in famiglia, con l’obiettivo di sensibilizzare su un tema molto delicato. “Sara si sentiva sola, emarginata, isolata, abbandonata, non capita, non rispettata“, ha raccontato la donna. “Aveva iniziato a mettere in dubbio se stessa, le sue capacità, e si incolpava fino a che non si è ammalata e ha desiderato di voler scomparire. Tutto questo le è successo dal 16 novembre del 2020 al 4 marzo del 2021. Più volte da allora mi sono chiesta se Sara si sarebbe potuta salvare e come”.

“Io mi sono ritrovata di fronte una sorella di trent’anni – ha continuato Pedri – che era come se ne avesse quattro: era magra e consumata, si abbracciava lo stomaco, si strappava il colletto della maglia perché si sentiva soffocare, si grattava dappertutto perché le sembrava di avere l’orticaria, si mangiava le unghie fino alla pelle, si era tolta anelli, braccialetti e collane che lei tanto amava perché diceva che le pesavano addosso, si accucciava negli angoli e si buttava a letto piangendo. Me lo ricordo come se fosse ieri e non lo dimenticherò mai. Nessun lavoro ci deve ridurre così, nessuno”, ha sostenuto Pedri a gran voce.

Dietro il malessere della dottoressa si annidavano le prevaricazioni continue subite sul posto di lavoro: tra gli ultimi episodi, come ricordato dalla sorella, c’era stata anche un’operazione andata male. Un cesareo, nello specifico, per cui la ginecologa sarebbe stata “incolpata, insultata, persino colpita sulle mani con uno strumento chirurgico. E ricordo quando il primario l’ha incrociata in reparto, ha notato come fosse dimagrita e le ha detto di riprendersi ‘o non gli sarebbe servita a nulla’”, ha ricordato la sorella.

Emanuela Pedri ha parlato anche della “politica delle porte aperte“, che “si basa sulla collaborazione e sul costante confronto tra chi svolge il ruolo di leader e chi, come Sara, passava dalla specialistica all’essere strutturata con chi era già esperto nel suo ruolo, perché da tempo lo svolgeva in quel reparto”. Un clima decisamente opposto a quello che si respirava nel reparto di ostetricia e di ginecologia dell’Ospedale Santa Chiara di Trento, dove la ginecologa lavorava in vista del trasferimento a Cles. La dottoressa si sarebbe ritrovata in un reparto in cui la politica delle porte aperte non veniva messa in atto in nessun modo, visto che Sara Pedri descriveva il suo ambiente di lavoro come un “incubo“, e a confermare le sue affermazioni sarebbero state anche ” le molteplici testimonianze delle dottoresse finite agli atti della Procura“, ha sottolineato la sorella della ginecologa.

Sara – ha continuato la sorella – avrebbe dovuto trovare un ambiente di lavoro che protegge il professionista e la persona, perché il professionista è in primis una persona. E come lo tutela? Attraverso risposte veloci e concrete”, menzionando anche come seconda condizione imprescindibile per un ambiente di lavoro sano “la constatazione che il professionista non è solo un individuo a sé, ma parte integrante di un gruppo, dove la squadra vince e perde assieme, dove se sbagli non fallisci, ma impari, dove ti danno la possibilità di crescere e di spiccare il volo”. Un terzo punto sarebbe quello di eliminare la distanza. “Una distanza – ha detto Emanuela Pedri – che ha portato Sara a una solitudine molto profonda. Sara si sentiva sola tra gli altri“.

“Il mobbing non è un’azione casuale, non è una molestia sessuale, non è un litigio”, ha spiegato Eraldo Mancioppi, psicoterapeuta consulente del Tribunale. L’esperto ha definito il fenomeno una “condotta vessatoria, fisica o psicologica, protratta, ripetuta nel tempo e mirata verso una persona”, che peraltro all’inizio è molto difficile da identificare. Proprio per la sua natura ambigua, il segretario generale Fenalt Maurizio Valentinotti ha ribadito che “abbiamo inserito tra gli obiettivi fondamentali l’impegno a ricercare soluzioni per far sì che gli enti si dotino degli anticorpi contro il verificarsi di mobbing, prendendo spunto dall’evidenza che incomprensibilmente per troppo tempo si è ignorato quanto accadeva in un reparto della nostra azienda sanitaria”.

Pedri ha concluso il suo intervento lanciando anche un invito ai familiari delle persone vittime di mobbing, chiedendo loro di non “sottovalutare il problema, soprattutto se, come nel caso di Sara, ci ha raccontato quello che succedeva attraverso il telefono, attraverso Whatsapp“. Infine, Pedri ha invitato i familiari ad “ascoltare tutte le difficoltà” e a “dimostrare vicinanza fisica” a chi subisce maltrattamento e vessazioni sul posto di lavoro.

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