I lavoratori addetti alle pulizie negli ospedali hanno diritto a vedere computato il tempo per indossare (e togliere) gli abiti da lavoro all’interno dell’orario giornaliero. Inoltre, visto che è l’azienda a dover fornire le divise pulite ai dipendenti, questi ultimi hanno diritto ad ottenere un risarcimento dei danni per aver fatto fronte al lavaggio (almeno tre volte alla settimana) a proprie spese e nella propria abitazione, anche durante il periodo del Covid. Dalla sentenza emessa a Padova dal giudice Mauro Dalla Casa, della sezione controversie del lavoro del Tribunale, emerge un principio di natura più generale che interessa tutti i dipendenti delle imprese di pulizie che si trovino nelle stesse condizioni di una quarantatreenne nigeriana.

Innoyeze Faith, residente a Padova, assistita dall’avvocato Emanuele Spata, aveva fatto causa alla Markas Service, con sede a Bolzano, assistita dagli avvocati Gianluca Spolverato, Francesca Marchesan ed Elisa Pavanello di Venezia. La dipendente, assunta nel 2009, è un’addetta alle pulizie nel servizio di sanificazione e disinfezione dell’ospedale Giustinianeo di Padova. Markas Service si occupa anche della pulizia di altre strutture ospedaliere pubbliche di Padova e provincia. Secondo il legale, la donna ha svolto per anni un compito di pulizia di superfici, pavimenti ed oggetti vari, in differenti reparti, entrando in contatto con diversi tipi di liquidi biologici provenienti dai pazienti, tra cui sangue, escrementi e urine. Un lavoro molto rischioso, anche perché si è occupata di pulire i cestini di rifiuti, contenente il materiale più differenziato.

Per questo l’addetta alle pulizie indossa una divisa composta da casacca, pantaloni, scarpe antinfortunistiche e guanti, Inoltre deve tenere puliti gli indumenti di lavoro. In base ad un avviso, era vietato al personale indossare la divisa in locali diversi da quelli dove presta servizio. Di qui l’obbligo di cambiarsi all’arrivo in ospedale, in uno spogliatoio ove ogni addetto ha un proprio armadietto. “Tali operazioni venivano compiute ad inizio turno prima della timbratura, mentre a fine turno erano effettuate dopo. Inoltre, la ricorrente doveva provvedere da sé al lavaggio di tali indumenti in violazione del capitolato d’appalto che stabiliva il divieto di provvedere al lavaggio presso la propria abitazione e prevedeva l’obbligo dell’impresa appaltatrice di fornire una divisa pulita ogni giorno”. Così scrive il giudice, riassumendo le richieste della lavoratrice: il riconoscimento del tempo impiegato per la vestizione pari a 20 minuti al giorno e un’ora di straordinario per ogni lavaggio degli indumenti, quindi tre lavaggi alla settimana. Il giudice ha accolto le richieste, salvo fissare il danno per il lavaggio degli indumenti in 50 euro mensili per tutta la durata del rapporto di lavoro.

Nel ricorso, l’avvocato Spata aveva ricordato come il lavaggio in casa della divisa avvenga anche in presenza di sporcizia derivante da liquidi biologici dei pazienti, “mettendo a rischio l’incolumità fisica dei propri familiari a causa di contatti chimici e biologici, senza contare l’estrema gravità del momento storico trascorso”. Anche in periodo di Covid il lavaggio delle divise era affidato ai dipendenti, nonostante i richiami dell’Azienda sanitaria padovana all’impresa di pulizie. La causa ha puntato a veder riconosciuto il tempo della vestizione all’interno dell’arco orario di lavoro giornaliero, visto che ogni lavoratore ha l’obbligo di indossare la divisa e non può usare abiti normali. Di conseguenza, la vestizione fa parte, a tutti gli effetti, dell’attività lavorativa, costituendo di fatto un dispositivo di protezione individuale rispetto ai rischi del materiale manipolato.

L’impresa di pulizie ha sostenuto, invece, che la divisa non avrebbe avuto quella natura, perché nelle aree dove c’era pericolo di contaminazione era previsto che fossero indossati ulteriori indumenti protettivi monouso. Inoltre i dipendenti non sarebbero stati costretti a timbrare il cartellino dopo essersi vestiti, ma avevano facoltà di farlo anche prima. Il giudice ha affermato che l’attività di pulizia in locali aperti al pubblico frequentati da persone portatrici di patologie “comporta il rischio di venire in contatto con agenti patogeni di varia natura, con sostanze nocive, tossiche, corrosive, con agenti biologici e con la sporcizia che i lavoratori devono rimuovere”. È quindi intuitivo che le divise “svolgono una funzione di protezione personale e non possono considerarsi indumenti ordinari di lavoro”. Una situazione analoga, e tutelata, è quella delle tute deli operatori ecologici e degli addetti alle pulizie delle carrozze ferroviarie.

Per questo “del compito di lavare quotidianamente le divise deve farsi carico il datore di lavoro, che ha il generale dovere di sicurezza nei confronti dei dipendenti”, mentre l’obbligo di indossare le divise sul luogo di lavoro nasce “da ragioni di igiene”. Infine, le divise non sono portabili all’esterno perché “se non fossero tolte potrebbero sporcare gli indumenti personali indossati sopra di esse”. La sentenza è stata accolta con soddisfazione dalla sigla Sls (Sindacato Lavoro Società) che ha inviato un comunicato a tutti i lavoratori delle imprese di pulizia del settore ospedaliero: “È un importante risultato che si pone a tutela della dignità della sicurezza dei lavoratori che anche in tempo di pandemia hanno contribuito alla salvaguardia della salute generale, rimanendo non solo esposti alle infezioni, ma anche misconosciuti nel loro diritto a vedersi riconoscere le giuste indennità”. Adesso si prevede il fioccare di cause simili.

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