Per pulire una cosa, bisogna sporcarne un’altra.
Però, sovente si riesce a sporcare tutto senza pulire niente
(Arthur Bloch, Legge di Imbesi sulla conservazione dello sporco, La legge di Murphy)

In tempi di crisi, ci si arrangia come si può. Se sei un’industria ormai in declino, additata da tutti come la più grande responsabile delle emissioni di CO2 che stanno alterando velocemente il clima del pianeta (molto più velocemente del previsto, a quanto pare), bisogna fare di tutto per darsi una ripulita. E di “carbone pulito”, si sente parlare da un bel po’: se ne parlava in Italia (quando interessava Enel) e se ne parla parecchio ancora oggi in Turchia, a pochi giorni dalle elezioni.

Ovviamente, la Turchia non è affatto immune dagli impatti del cambiamento climatico, anzi. Secondo il rapporto G20 Climate Risk Atlas redatto dalla Fondazione Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici (CMCC), tra siccità, ondate di calore ed eventi estremi la Turchia è messa piuttosto male, per dirla con un eufemismo. In estrema sintesi: “Senza un’azione urgente, si stima che la Turchia rischia di perdere il 2,26% del Pil al 2050. Che arriva al 7,98% al 2100. Investendo adesso in un’economia low carbon, la Turchia può limitare le sue perdite al 2050 allo 0,6%”.

Per questi ottimi motivi, Ankara ha ratificato nel 2021 l’Accordo di Parigi, annunciando di voler raggiungere la neutralità climatica entro il 2053, ma a modo suo. Come? Puntando sul “carbone pulito”, più esattamente sulla lignite combinata con varie tecnologie: dalla gassificazione alla purificazione da ossidi di zolfo e azoto, fino all’immancabile cattura e stoccaggio.

Se le devastazioni causate dall’estrazione di lignite sono state portate alla ribalta planetaria dalle proteste in Germania contro la miniera di Lützerath, gli impatti sulle comunità in Turchia non sono meno gravi: ad esempio, una coalizione di donne da Yenice, Çanakkale, Soma, Yırca and Karabiga ha denunciato la distruzione delle terre da cui contadini e contadine di queste comunità traggono sostentamento coltivando noci per la propria sussistenza. Oltre al degrado della qualità dell’aria, denunciano l’aggravarsi di problemi respiratori come l’asma. Ancora, a Yirca, le comunità rurali hanno denunciato come il gruppo Kolin abbia illegalmente sradicato circa seimila alberi di olivo per costruire una centrale a carbone. Residenti e attivisti erano già stati malmenati e ammanettati nel tentativo di difendere gli alberi.

D’altra parte, il potenziale di fonti rinnovabili in Turchia è enorme e uno studio del 2017 conclude che “un sistema basato al 100% su energie rinnovabili riduce la dipendenza dall’importazione e le emissioni di carbonio, abbassando al tempo stesso i costi di fornitura di energia”. Insistere con il carbone pulito è quindi una scelta insensata e per questo, in un contesto dove protestare non è affatto semplice, gli attivisti per il clima di Raise your voice for climate justice hanno deciso di protestare, disturbando il Clean Coal Summit organizzato ad Ankara con il supporto del Ministero dell’Energia e delle Risorse Naturali turco.

Mentre decine di attivisti protestavano fuori dal centro congressi con fischietti e slogan, nella sala – durante l’intervento introduttivo di Hasan Hüseyin Erdogan, General Directorate of Turkish Coal Enterprises – il Direttore Esecutivo di Greenpeace Mediterraneo, Ersin Tek [nella foto in evidenza, ndr], mostrava un cartello con il messaggio: “Aria sporca, denaro sporco. Cosa c’è di pulito?”. Ersin Tek è stato immediatamente allontanato dalla sala, ma il messaggio è arrivato forte e chiaro: decarbonizzare la Turchia è la vera operazione di pulizia che serve, e subito. Vedremo cosa ci diranno queste elezioni.

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