Lo hanno chiamato Pal, Gal, Sda e adesso Supporto per la formazione e il lavoro, rinunciando a un acronimo impronunciabile. Cambi di nome, correzioni e infinite bozze. Eppure il nuovo decreto del governo, approvato nel Consiglio dei ministro lo scorso Primo maggio, non è riuscito a sanare la palese violazione del diritto europeo. L’indennità di formazione dedicata ai cosiddetti “occupabili” esclude infatti tutte le persone non residenti in Italia da almeno 5 anni di cui gli ultimi 2 in modo continuativo. Se di una scelta si tratta, appare coerente con l’orientamento della maggioranza e probabilmente col sentimento di una parte dell’opinione pubblica e dell’elettorato. Ma questo non toglie che per il diritto europeo si tratti di una discriminazione che viola una precisa direttiva Ue e contraddice recenti sentenze della nostra Corte costituzionale. Tanto che gli avvocati per i diritti prevedono ricorsi giudiziari e possibili rinvii alla Corte di giustizia e alla stessa Corte costituzionale. Come non bastasse, e qui siamo al colmo, la norma contraddice il programma Garanzia occupabilità dei lavoratori (Gol) legato a fondi del Pnrr che finanzia la formazione professionale.

Cosa ha deciso il governo Con il dl lavoro il governo Meloni ha scelto di dare il nuovo Assegno di inclusione (Adi), che dal prossimo gennaio sostituirà il Reddito di cittadinanza, alla sole famiglie in cui sono presenti minori, persone con disabilità o over 60. I poveri che non appartengono a questi nuclei, se hanno tra i 18 e i 59 anni e un Isee familiare inferiore ai 6.000 euro annui, potranno invece richiedere il Supporto per la formazione e il lavoro: 350 euro al mese per un massimo di 12 mesi non rinnovabili. Anche i componenti “occupabili” dei nuclei beneficiari dell’Assegno di inclusione potranno farne richiesta, ma in ogni caso il richiedente dovrà essere, al momento della domanda, “residente in Italia per almeno cinque anni, di cui gli ultimi due anni in modo continuativo” (art. 2 comma 4 dl lavoro). Ma la nuova regola contrasta con la direttiva Ue 98 del 2011, che “si applica ai cittadini di paesi terzi che chiedono di soggiornare in uno Stato membro a fini lavorativi” e a quelli “ammessi in uno Stato membro a fini diversi dall’attività lavorativa a norma del diritto dell’Unione o nazionale, ai quali è consentito lavorare e che sono in possesso di un permesso di soggiorno ai sensi del diritto Ue”. A tutti loro, la direttiva riconosce “lo stesso trattamento riservato ai cittadini dello Stato membro in cui soggiornano per quanto concerne l’istruzione e la formazione professionale” (art. 12, comma 1, lettera c – direttiva 2011/98/Ue).

Regola contraria a norme Ue e sentenzeInutile il paragone con l’Assegno di inclusione, che ai suoi beneficiari richiede lo stesso requisito dei 5 anni di residenza. “Per un’indennità di formazione professionale la distinzione non si può fare“, precisa infatti l’avvocato Alberto Guariso, già titolare dei ricorsi contro il requisito dei 10 anni di residenza previsto dal Reddito di cittadinanza, pendenti alla Corte di giustizia dell’Unione europea e alla Corte costituzionale. “Cercheremo di diffondere queste informazioni e di metterle a disposizione dei parlamentari che vorranno porre la questione di illegittimità in fase di conversione in legge del decreto, proponendo emendamenti estensivi”, spiega il legale annunciando in questo senso l’impegno dei giuristi dell’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (Asgi), da sempre in prima linea nella tutela dei diritti degli stranieri. Con tutta probabilità, si rammarica Guariso, “si tratterà di proposte che verranno respinte dalla maggioranza di governo”. E così, ancora una volta, toccherà ingaggiare i tribunali, spingendo il rinvio alle Corti perché ristabiliscano la legalità. Niente di temerario, sia chiaro. Anzi, la direttiva europea 98/2011 è già ampiamente richiamata dalle sentenze della Corte di giustizia Ue, dove il diritto alla parità di trattamento è “espressione concreta del diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale sancito dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione” (art. 34, paragrafi 1 e 2). E dalla nostra Corte costituzionale, per cui tale diritto “si raccorda ai principi consacrati dagli artt. 3 e 31 Cost. e ne avvalora e illumina il contenuto, allo scopo di promuovere una più ampia ed efficace integrazione dei cittadini dei Paesi terzi” (Sentenza 54/2022).

Un paradossale cortocircuito L’esclusione dall’indennità di formazione di tanti cittadini stranieri, magari entrati in Italia grazie ai decreti flussi che il governo intende allargare, è poi in contraddizione con l’unico, vero programma di formazione professionale delle nostre politiche attive,il programma Gol (Garanzia per l’occupabilità dei lavoratori) legato agli obiettivi del Pnrr che entro il 2025 dovrà coinvolgere 3 milioni di beneficiari, di cui 800 mila in attività formative. Insomma, se un disoccupato entra in un Centro per l’impiego, con tutta probabilità verrà iscritto a Gol e avviato ai percorsi di qualificazione e riqualificazione professionale, come del resto prevede lo stesso dl lavoro del governo per tutti gli “occupabili”. Ma Gol non esclude nessuno, né richiede anni di residenza per potervi aderire. Il programma, gestito dalle Regioni, è aperto a beneficiari di ammortizzatori sociali senza lavoro, percettori di strumenti di sostegno al reddito, come il Rdc e dal 2024 l’Assegno unico di inclusione, e anche ai lavoratori fragili o svantaggiati, compresi i cosiddetti working poor.

Di più: a tutti coloro che seguiranno i corsi di formazione, le Regioni possono riconoscere indennità di partecipazione attualmente fissate tra i 3,50 e i 3,80 euro l’ora. E qui siamo al paradosso. Perché uno straniero residente in Italia da meno di 5 anni, seguendo i corsi di Gol prenderà l’indennità regionale anche se non è in condizione di povertà. Mentre lo straniero povero ma privo del requisito di residenza non potrà in alcun caso ricevere i 350 euro del Supporto per la formazione e il lavoro. Un cortocircuito che conferma l’incompatibilità del dl lavoro con il programma nazionale Gol, che si rivolge in particolare proprio alle persone con “minori chance“, e più in generale con il principio europeo per cui “Ogni persona che risieda o si sposti legalmente all’interno dell’Unione ha diritto alle prestazioni di sicurezza sociale e ai benefici sociali, conformemente al diritto dell’Unione e alle legislazioni e prassi nazionali” (art. 34 paragrafo 2 Carta dei diritti fondamentali Ue).

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