Chiedere ai cittadini stranieri titolari di protezione internazionale 10 anni di residenza per accedere al Reddito di cittadinanza contrasta con il diritto europeo. Ne è convinto il Tribunale di Bergamo, che ha deciso di rinviare alla Corte di giustizia dell’Unione europea (CGUE) il ricorso di un titolare di protezione residente in Italia contro la decisione dell’Inps di revocare la prestazione. La giudice del Tribunale Giulia Bertolino ha accolto la richiesta degli avvocati Alberto Guariso, Ilaria Traina e Giovanna Maggi dell’Asgi, chiedendo alla Corte di Lussemburgo di esprimersi sulla compatibilità della normativa del 2019 sul RdC con la direttiva europea che garantisce ai titolari di protezione internazionale la parità di trattamento con i cittadini italiani nelle prestazioni di assistenza sociale e nell’accesso ai servizi.

La vicenda all’esame del Tribunale lombardo, e ora sospesa in attesa del pronunciamento della CGUE, riguarda un titolare di protezione sussidiaria giunto in Italia nel 2011 e da allora residente in Italia, dove si è sposato e dove sono nati i suoi figli. Ma, al momento di presentare domanda per il Rdc, alla maturazione dei 10 anni mancava ancora qualche mese. Scrive il Tribunale: “Egli ha inizialmente ottenuto il reddito di cittadinanza avendo erroneamente dichiarato la sussistenza del requisito di residenza decennale non continuativa”. Verificata l’assenza del requisito, l’Inps ha revocato la prestazione, chiedendo la restituzione delle somme versate e rifiutando per il futuro la concessione del beneficio. Uno dei tanti casi che hanno interessato i cittadini stranieri che, a volte su consiglio dei centri di assistenza fiscale e patronati, avevano presentato domanda pur in assenza del requisito previsto dalla legge e che si sono visti poi revocare la prestazione. Secondo i dati forniti dall’INPS si tratta di più di 100 mila richiedenti.

Rivoltosi alla Cgil, il titolare di protezione è poi stato assistito in giudizio dagli avvocati dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (ASGI). Che nel loro comunicato stampa scrivono: “Secondo il Giudice di Bergamo il requisito contrasta con la direttiva 2011/95 (artt. 26 e 29), prevede un tempo tanto lungo da non poter essere fatto valere da più della metà dei rifugiati attualmente residenti in Italia, e viola infatti l’obbligo di parità di trattamento previsto dalla direttiva”. Inoltre, aggiungono, “non risponde neppure ad alcuna ragionevole motivazione non avendo lo Stato interesse a escludere da un percorso di inserimento persone bisognose che hanno una presenza stabile in Italia e sono comunque titolari di un permesso a tempo indeterminato”. E concludono: “Asgi e Cgil Lombardia chiedono che il governo e il Parlamento, senza necessità di prolungare ulteriormente questa fase di incertezza, pongano mano a un requisito fortemente sospetto di illegittimità e comunque inutile, che esclude persone bisognose dalla possibilità di accedere a un percorso di uscita dalla marginalità”.

Nell’ordinanza di rinvio, la giudice di Bergamo cita precedenti sentenze in cui la CGUE ha già censurato requisiti simili, che limitavano ai titolari di protezione l’accesso a prestazioni o servizi. Inoltre fa notare come “i titolari di protezione accedono al pubblico impiego a parità di condizioni con il cittadino italiano indipendentemente dagli anni di residenza in Italia: è dunque paradossale che un titolare di protezione sia ritenuto sufficientemente “radicato” per svolgere attività che richiedono un notevole grado di immedesimazione con l’interesse pubblico e non sia invece considerato sufficientemente radicato per accedere al RDC”. Se la Corte di giustizia confermerà il contrasto con la normativa europea, il requisito dei dieci anni decadrà e la cosa varrà per tutti da subito. Nel frattempo anche la Corte Costituzionale si pronuncerà a breve sullo stesso requisito dei 10 anni (riferito in quel caso ai cittadini europei) a seguito del rinvio disposto dalla Corte d’Appello di Milano. Il requisito era stato definito sproporzionato anche dalla Commissione nominata dal precedente governo e presieduta dalla sociologa Chiara Saraceno, che aveva inserito la proposta della sua revisione tra quelle per la riforma del Rdc.

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