Che cos’è la diplomazia (quella pubblica) se non un atto razionale e calcolato di mediazione, da parte di un’autorità politica? Ne discende il concetto di realpolitik, ossia l’applicazione pragmatica di relazioni internazionali che possono sconfinare, e spesso lo fanno, in rapporti di reciproco interesse anche con soggetti non raccomandabili istituzionalmente: come succede tra democrazie e autocrazie da sempre, creando legami materiali, ossia commerciali in cui ciascuno dei contraenti cerca di ottenere vantaggi e di sfruttare opportunità. E’ la strategia che favorisce una serie di priorità nella prospettiva di affermare sviluppo e potenza del proprio Paese, in una sorta di mutuo scambio grazie alla costruzione volontaria di legami che vanno oltre la frammentazione del mondo, i giochi di potere, i teatri di conflittualità tra le grandi potenze, le crisi economiche, sanitarie, ambientali, climatiche, energetiche e securitarie, tutte strettamente connesse. In questo contesto sempre più radicalizzato (in cui il multilateralismo è messo in discussione dai regimi illiberali o autoritari), gli spazi di manovra sono sempre più complessi e intricati, e le sfide geopolitiche da affrontare sono ancor più sofisticate.

Come nel caso dell’Uzbekistan, la più popolosa delle repubbliche ex Urss dell’Asia Centrale (36 milioni di abitanti), guidata da Shavcat Mirziyoyev, un agronomo di 65 anni succeduto all’autocratico Islam Karimov, deceduto nel 2016, dopo esserne stato primo ministro per tredici anni. Il 30 aprile un referendum pilotato dal potere ha operato alcune riforme della costituzione uzbeka, concedendo più diritti e servizi sociali ai cittadini, ma anche garantendo a Mirziyovev una revisione sostanziale del mandato presidenziale, prolungandolo a sette anni e rinnovabile due volte, azzerando la situazione attuale. Morale della favola, Mirziyovev potrebbe restare in carica sino al 2040, e, forse al 2042 se il settennato si applicasse al mandato in corso (ciò che il testo non esclude).

Tutto ciò ricorda molto da vicino ciò che attuò Putin con un referendum analogo nel luglio del 2020, quando rimise a zero il contatore del suo mandato presidenziale così che potesse restare al Cremlino sino al 2036, salute permettendo. In realtà, gli Stati autoritari dello spazio postsovietico mutuano sistemi di governo l’uno dall’altro, e, a rigor storico, il pioniere di questi espedienti per restare in cima al potere fingendo di rispettare il dettame costituzionale è stato proprio Karimov, divenuto primo presidente dell’Uzbekistan, subito dopo l’indipendenza del 1991, dopo essere stato primo segretario del partito comunista uzbeko. A quel tempo, la neonata repubblica dell’Asia Centrale era additata al pubblico ludibrio per le ignobili condizioni di lavoro infantile nei campi di cotone, una delle principali risorse del Paese, e per questa insopportabile situazione il lucroso commercio del cotone uzbeko era stato messo al bando dalla comunità internazionale.

Per rompere con questa imbarazzante e soffocante eredità, Mirziyovev ha cercato di avviare, sia pure a piccoli e timidi passi, un programma di riforme che possiamo definire liberali. Tre i punti fondamentali: 1) conversione della moneta locale, il soum, per stroncare quanto più possibile la piaga del mercato nero; 2) la fine dei lavori forzati e l’impiego dei bambini nell’agricoltura; 3) la liberazione dei prigionieri politici. Poi, la riforma di due terzi della carta costituzionale per fare dell’Uzbekistan – uso parole sue – “uno stato sociale in cui l’essere umano, la sua vita, la sua libertà e la sua dignità sono valori supremi”.

Malgrado progressi e promesse, le Ong sostengono che ancora non siano rispettate le libertà fondamentali: l’opposizione, quella vera e non quella posticcia ad uso e consumo dell’opinione pubblica, non ha diritto di cittadinanza. La stampa libera è inesistente, come la vita democratica. Ci sono però blog in cui sono ritagliati spazi di discussione e di dibattito, tollerati dal regime perché Mirziyovev ne ha compreso l’utilità e perché in questo modo può sempre tenere sotto controllo i limiti del dissenso. A prescindere dalle intenzioni dichiarate di “socializzazione” del Paese e le belle parole sulle libertà, le riforme strutturali tardano ad essere avviate, ed il sistema di potere è quello ben collaudato da Putin, ossia resta verticale. Alcuni blogger denunciano che sinora le riforme annunciate sono solo per l’immagine, e scrivono che il lavoro forzato nell’industria del cotone non è affatto soppresso (un tempo era lo Stato che lo imponeva, oggi ci pensano i capolarati al servizio dell’imprenditoria privata).

Il presidente uzbeko è tuttavia ambizioso: punta a trasformare e a modernizzare il suo Paese, desidera aprire agli investitori stranieri, i quali non aspettano altro per presentarsi e finanziare i progetti (centinaia, per svariati miliardi di dollari) che Tashkent (la capitale, tre milioni di abitanti) vorrebbe mettere in piedi. Così, negli ultimi anni, ha favorito la libertà d’impresa. Vuole che l’Uzbekistan abbia un’economia competitiva e che primeggi nella regione asiatica. Peccato che questo sogno sia ostacolato dalla corruzione (male endemico nelle ex repubbliche sovietiche) e dall’inerzia burocratica. E che le riforme del codice penale, come quella del diritto di associazione, tardino.

Ma il Paese è giovane (lo è il 60 per cento della popolazione). E che pretenda cambiamenti. Lo esigono le donne che sono riuscite ad ottenere proprio poche settimane fa, ad aprile, una prima legge sulla violenza che le affligge storicamente (in Uzbekistan è un fenomeno che i sociologi definiscono “massiccio”). Le attiviste femministe, come Irina Matvienko, tuttavia deplorano le carenze della legge (poco incline a criminalizzare le violenze), sebbene lo considerino un significativo “primo passo”.

Un altro problema che in passato aveva provocato violente proteste soffocate nel sangue (la più grave fu quella del 2005, ad Andijan, repressa a suon di mitragliatrici, quando la folla voleva liberare 23 persone accusate ingiustamente d’essere “estremisti islamici terroristi”, costata la vita a quasi mille manifestanti) riguardava l’autonomia della regione desertica del Karakalpakstan, tra le più povere. Lo scorso luglio, Mirziyovev aveva dichiarato di volere rivederla, scatenando l’ira della popolazione, tacitata di nuovo a suon di proiettili. Le stesse autorità sono state costrette a riconoscere ventun morti e 243 feriti, un bilancio probabilmente inferiore alla realtà. Uno dei leader della protesta, l’avvocato Dauletmurat Tadzhimuratov, è stato accusato di cospirazione e condannato a sedici anni. Ma per evitare sconquassi peggiori, alla fine il presidente uzbeko ha preferito rinunciare al suo intento. Scelta opportunistica. La regione, infatti, “rappresenta storicamente uno spazio di faglia geopolitica”, come scrive Fabrizio Vielmini, esperto di Russia, Caucaso e Asia Centrale, professore associato di Relazioni Internazionali all’università di Tashkent e analista per Vision&Global Trends-International Institute for Global Analyses. Il Karakalpakstan è stato devastato dalla catastrofe ecologica del lago (o mare) d’Aral, e la conseguente salificazione del territorio.

C’è stato inoltre un drastico peggioramento della situazione sanitaria che ha reso infernali le condizioni di vita: “Tali processi hanno coinciso con l’irrigidimento del regime di Karimov che, secondo consolidate dicerie, avrebbe volutamente sfruttato il degrado così da modificare la composizione demografica della regione riducendo il numero dei karakalpaki e dei kazaki (i tradizionali abitanti, ndr). Nella stessa prospettiva, Tashkent avrebbe privilegiato lo sviluppo delle aree popolate da uzbeki”.

La Repubblica autonoma del Karakalpakistan (Rak) è, in verità, un risultato amministrativo dell’ingegneria della nazionalità sovietica, alla quale venne assegnato un territorio enorme (il 40 per cento dell’Uzbekistan) ma dove vive appena il 5 per cento della popolazione. Fino al 1936 faceva parte del Kazakistan. Al crollo dell’Urss, la capitale regionale Nukus cercò di affermare la propria indipendenza ma Karimov usò il pugno di ferro per impedirlo. Insomma, i nazionalismi sono cenere bollente, senza dimenticare l’influsso non disinteressato della Turchia nella regione degli stati “stan”…e ancor di più, alla luce della guerra in Ucraina.

Paradossalmente, il conflitto da una parte inquieta Tashkent, dall’altra ne rilancia l’attività diplomatica. La guerra, infatti, ridisegna gli equilibri in Asia, e quindi ne riconfigura i dati economici e politici. In questo scombussolato contesto, Mirziyovev ha capito che se vuole ottenere la fiducia dei mercati, deve dimostrare e convincere i suoi interlocutori internazionali di volere “l’apertura”, timida ma ben reale da quando è salito al potere nel 2016. A cominciare dal limitare l’apparato dello Snb, il servizio nazionale di sicurezza, la feroce polizia politica fondata sulla repressione interna. Un’operazione delicata, da affrontare cautamente. Qualcosa è stato fatto: sono state riabilitati, per esempio, 18mila cittadini accusati di “slealtà” nei confronti dello Stato e schedati in una famigerata lista nera, il che rendeva impossibile trovare un lavoro regolare. E tuttavia, gli equilibri da risistemare non sono solo quelli di casa.

L’Uzbekistan ha intensificato i suoi sforzi per normalizzare i rapporti coi vicini ed ha accolto il summit dell’organizzazione di cooperazione di Shangai, ma ha anche rafforzato le cooperazioni coi Paesi dell’Unione Europea, sebbene l’asse cino-russo rischi di pregiudicare queste iniziative di relativa autonomia diplomatica. Un messaggio preciso e minaccioso è arrivato dalle sconcertanti dichiarazioni dell’ambasciatore cinese a Parigi che di recente ha rimesso in causa la sovranità non solo dell’Ucraina, ma dei Paesi ex-Urss, di fatto negandone l’indipendenza. Dichiarazioni ritrattate, in fretta e furia, però rivelatrici: l’evoluzione cioè della “sovranità limitata” già dottrina sovietica che Putin ha messo in atto, a partire dal 2008 con l’invasione della Georgia, attribuendosi il diritto di intervenire qualora stimasse che il suo regime dittatoriale possa essere minacciato da un contagio politico nella sua area d’influenza.

Tra questi paletti, come in uno slalom, Mirziyovev è costretto a destreggiarsi per diversificare gli interlocutori occidentali soprattutto e non, pur mantenendo stretti rapporti con Mosca, da cui l’Uzbekistan è molto dipendente in materia economica, politica e securitaria, anche se sulla questione ucraina Tashkent, come le altre capitali dei paesi confinanti, ha mantenuto una certa neutralità. Per questo, l’Occidente ha sorvolato sul referendum del 30 aprile e sulle sue modalità criticate dall’Ocse. Un do ut des. In sintonia col mantra “è venuta l’ora dell’Asia Centrale”, bisogna approfittare della guerra in Ucraina che impegna e distrae la Russia altrove.

A Tashkent il suo corollario propagandistico è lo slogan “dal grande passato al grande futuro”, leit motiv del Forum “Tashkent International Investment” che ha visto, l’anno scorso, precipitarsi nella capitale uzbeka ben 1500 grandi investitori internazionali in rappresentanza di 56 stati, compresi quelli Ue, tra i quali, in prima fila, anche l’Italia. Una sorta di sdoganamento, cui sta corrispondendo la fitta attività diplomatica in giro per le capitali occidentali di Mirziyovev a Parigi, Berlino, ma pure Pechino e, a giugno, in Italia, a Roma, dove incontrerà il presidente Mattarella e la premier Meloni. Il presidente uzbeko vuole ritagliarsi il ruolo di interlocutore equidistante tra l’Ue e la Russia, tra le multinazionali occidentali, la Cina (la nuova Via della Seta passa anche dall’Uzbekistan) e l’India. Alletta l’ingordigia delle multinazionali, corteggia le banche europee, giapponesi, coreane, arabe; rassicura i cinesi, considerandoli i partner dello sviluppo uzbeko, espone 220 “progetti prioritari” per lo sviluppo della e-government e per favorire la nascita di nuove imprese del software e altre tecnologie informatiche (aumento della rete Internet con 20mila chilometri di fibra ottica che collegherà il 95 per cento delle città), vuole imporsi come meta turistica d’eccellenza (i visitatori sono passati da 1,9 a 6,9 milioni), ha creato in 22 regioni zone economiche franche, ha ottenuto la revoca del boicottaggio che aveva colpito la filiera del cotone (7mila imprese), ha scelto un’azienda Usa per creare un avanzato cluster agricolo digitalizzato (valore 344 milioni di dollari). Al Forum 2022 sono stati sottoscritti 164 contratti per un totale di 7,8 miliardi di dollari, ed ulteriori progetti per altri 3,5 miliardi.

Gli occhi semichiusi dell’Occidente sul presidente che si è ritagliato la Costituzione per perpetuare il mandato, come Putin, sono invece bene aperti quando si tratta di affari. Business is business.

Articolo Precedente

Re Carlo III e le scelte anti-sfarzo: una cerimonia più contenuta con un preciso scopo

next