Dall’insediamento del governo Meloni ad oggi, l’unica vera novità rispetto ai governi precedenti è che stavolta l’ennesima riforma del mercato del lavoro (a detrimento dei lavoratori) è stata fatta da un governo di destra.

La Flat Tax, l’abolizione del reddito di cittadinanza, così come la riforma del decreto dignità, non lasciano dubbi su quale sia la linea dell’attuale governo in materia di lavoro: riformare dell’articolo 1 della nostra amata Costituzione, ovvero passare da una repubblica fondata sul lavoro a una fondata sui lavoretti, quindi sullo sfruttamento. E per sfruttamento si intende il venir meno di un altro principio della nostra Carta Costituzionale, quello per cui la retribuzione deve essere proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto, e deve comunque risultare sufficiente a garantire una vita libera e dignitosa (v. art. 36).

Partiamo dalla Flat Tax: la riforma in questione, oltre ad attuare un iniquo prelievo fiscale a favore dei redditi più alti, è evidentemente diretta a “favorire” il lavoro autonomo, ovvero a “spingere” molti lavoratori verso la scelta di un rapporto di lavoro autonomo piuttosto che subordinato, con un evidente sgravio fiscale e contributivo tutto a vantaggio delle aziende. La scelta di passare da un rapporto di lavoro dipendente a uno autonomo sarebbe dettata, infatti, dalla necessità per molti lavoratori di disporre di maggiore liquidità per far fronte alle necessità quotidiane (casa, istruzione, sanità), che diversamente sarebbero impossibilitati a fronteggiare.

Non è un mistero che l’Italia è l’unico paese dell’Unione europea in cui negli ultimi 30 anni il salario medio dei lavoratori è diminuito anziché aumentare. Tra il 1990 e il 2020 nel nostro paese si è registrato un calo del salario medio annuale pari al 2,9%, mentre in Germania e in Francia nello stesso arco di tempo i salari medi hanno avuto un incremento rispettivamente del 33,7% e del 31,1%.

A tal proposito vale la pena ricordare le recenti sentenze del Tribunale di Milano con cui il contratto nazionale Servizi Fiduciari, sottoscritto da Cgil e Cisl, è stato dichiarato illegittimo perché contrario all’art. 36 della Costituzione. Come si legge in queste sentenze, le retribuzioni previste dal contratto collettivo in questione sono al di sotto della soglia di povertà relativa. A ciò si aggiunga che le aziende molto spesso sottoinquadrano i lavoratori abbassando loro la retribuzione, come dimostrano le oltre 50 sentenze pronunciate dal Tribunale di Milano contro Almaviva Contact S.p.A.

Tuttavia la scelta del lavoro autonomo ha un costo e non da poco. Se da un lato i lavoratori dispongono di maggiore liquidità, dall’altro sono costretti a rinunciare a tutti gli istituti del lavoro subordinato: ferie, malattia, trattamento di fine rapporto e, cosa più importante, alla tutela contributiva (che rimane interamente a carico del lavoratore).

Per quanto riguarda poi l’abolizione del tanto vituperato reddito di cittadinanza, va innanzitutto sottolineato che la misura introdotta dal governo giallo-verde non può certamente essere ridotta a un mero sussidio per le classi meno agiate, come più volte affermato erroneamente dalle varie parti politiche, ma piuttosto va considerata una misura volta a sottrarre i lavoratori dal ricatto salariale. In altre parole, grazie al reddito di cittadinanza i lavoratori hanno avuto la possibilità di rifiutare offerte di lavoro con stipendi da fame. E proprio qui sta la ragione della sua abolizione: la volontà di obbligare i lavoratori ad accettare qualsiasi offerta di lavoro anche se iniqua (peraltro in caso di rifiuto il lavoratore rischia di perdere la NASPI).

Per intenderci: il reddito di cittadinanza, diversamente dai discorsi da bar che sono stati fatti negli ultimi anni, è una misura in linea con il dettato costituzionale per cui “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto…”. Rendere effettivo il diritto al lavoro significa preservarne la funzione sociale, ovvero garantire al lavoratore una retribuzione che gli consenta una vita libera e dignitosa. E per rendere effettivo il diritto al lavoro, avrebbe senso introdurre anche in Italia un salario minino, quantomeno per riequilibrare il potere contrattuale dei lavoratori; anche su questo punto, non solo la destra è contraria, ma anche chi sta all’opposizione non lo ritiene una misura necessaria.

L’ultimo intervento assunto dal governo Meloni è quello della riforma del Decreto Dignità per quanto riguarda i limiti imposti dalla legge all’utilizzo abusivo dei contratti a termine. Il Decreto Dignità aveva finalmente reintrodotto nell’ordinamento una serie di limiti all’utilizzo di questi contratti. Ma il governo Meloni, così come quello Renzi, ha pensato bene di eliminarli per aiutare qualora ve ne fosse bisogno le aziende. Con la riforma in questione le aziende potranno assumere a tempo determinato fino a 24 mesi senza l’obbligo della causale, riducendo così le possibilità per i lavoratori di ottenere un contratto di lavoro stabile.

Alla luce di questi interventi, alcune domande sorgono spontanee.
La prima fra tutte: dove sono i sindacati e i partiti di sinistra o presunti tali? È infatti inevitabile il paragone con quanto sta succedendo in questi mesi in Francia, dove la riforma delle pensioni ha portato migliaia di persone in piazza. Mentre nel nostro paese i provvedimenti sopracitati stanno passando nel silenzio più assordante. Certo, in Italia abbiamo delle priorità, come ad esempio la cattura dell’orsa Jj4.

E poi: cosa ne pensano gli elettori della Meloni, quell’elettorato di destra o di estrema destra che vive nelle periferie, dove la Meloni ha ottenuto molti voti? Dopo aver affermato il primato del lavoratore italico, questi elettori come pensano di sopravvivere? Forse nutrendosi di farina di cavallette.

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