La lettera che Giorgia Meloni ha inviato al Corriere della Sera (per raccontare il “suo” 25 aprile e l’evoluzione della destra erede del Msi) merita di essere letta due volte per capire meglio. Nel senso che non è interessante soltanto quello che scrive, lo è di più ciò che non scrive o che sottintende. Affrontando la missiva in questo modo si ha l’opportunità di spiegare a noi stessi – non alla premier, che sa bene ciò che (sotto)intendeva – il senso del contenuto, esplicito e implicito, e il significato di certe apparenti omissioni.

Cominciamo dall’inizio. Meloni sostiene che «da molti anni […], e come ogni osservatore onesto riconosce, i partiti che rappresentano la destra in Parlamento hanno dichiarato la loro incompatibilità con qualsiasi nostalgia del fascismo». Sarebbe facile risponderle che, per esempio, le recenti affermazioni del presidente del Senato Ignazio Benito Maria La Russa – cofondatore di Fratelli d’Italia, missino da sempre – dimostrino, a cominciare dal secondo nome, il contrario: da «L’antifascismo non è nella Costituzione» (falso) a «I soldati tedeschi uccisi dai partigiani in via Rasella erano una banda musicale di pensionati» (falso, era l’armatissimo e attivissimo terzo battaglione del Polizeiregiment) fino ai cimeli fascisti e al busto di Mussolini che egli esibisce con orgoglio a casa sua.

Si potrebbero citare anche la gaffe sulla “sostituzione etnica” firmata da Francesco Lollobrigida, ministro FdI nel governo Meloni, e le stesse frequenti gaffe della premier; per non parlare degli esponenti del suo partito affezionati ai saluti romani. Invece è bene notare che quella frase pronunciata da Meloni forse sottintende altro, tanto più se si considera che in tutto la sua lettera non usa mai i termini “antifascismo” e “antifascista” (né riferiti a se stessa né ai suoi camerati). Forse vuol dire che siccome la destra (si noti bene: “In Parlamento”, precisa) non mostra alcuna nostalgia per il fascismo, dunque non è più necessario neppure l’antifascismo.

In effetti quel testo inviato al Corriere sembra più una teorizzazione dell’attuale inutilità del contrasto al fascismo che una sconfessione del Ventennio mussoliniano, tanto ormai è – teoricamente – acqua passata.

Poi Meloni sottolinea che, mentre il 25 aprile «milioni di italiani tornarono ad assaporare la libertà, per centinaia di migliaia di nostri connazionali di Istria, Fiume e Dalmazia iniziò invece una seconda ondata di eccidi e il dramma dell’esodo dalle loro terre» Al di là dello slogan caro alla destra “E allora le foibe?”, come se quel dramma pareggiasse i conti con i massacri del regime nazifascista, la premier omette, come sempre, di ricordare che la tragedia era stata preceduta in quelle terre da anni di repressione italiana in chiave fascista: stragi, esecuzioni, internamenti in lager durissimi che mietevano tantissime vittime per fame e malattia. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel 2020 è andato in Slovenia per commemorare anche le vittime degli italiani durante l’occupazione fascista; mentre nella narrazione meloniana quest’ultimo tema è sempre censurato, preferendo equiparare la repressione titina/comunista (ovviamente da condannare) a un quarto di secolo di crimini mussoliniani.

Meloni dopo scrive, riferendosi alla Costituzione, che da un «paziente negoziato volto a definire princìpi e regole della nostra nascente democrazia liberale – esito non unanimemente auspicato da tutte le componenti della Resistenza – scaturì un testo che si dava l’obiettivo di unire e non di dividere». Una «difficile transizione, che aveva già conosciuto un passaggio significativo con l’amnistia voluta dall’allora ministro della Giustizia Togliatti» e aveva «il compito di includere nella nuova cornice anche chi aveva combattuto tra gli sconfitti».

Si noti l’accenno al fatto che non tutti, secondo lei, nel Dopoguerra volessero una democrazia liberale. C’è un chiaro riferimento subliminale ai “comunisti cattivi”. Poi però la premier cita Togliatti come colui che garantì l’amnistia ai criminali fascisti: in effetti il 22 giugno 1946 entrò in vigore il “Decreto presidenziale di amnistia e indulto per reati comuni, politici e militari” avvenuti durante il periodo dell’occupazione nazifascista, proposto e varata dal ministro di Grazia e Giustizia del primo governo De Gasperi, Palmiro Togliatti. Guarda caso, Meloni si dimentica di scrivere che era il segretario del Pci: lo stesso poco prima indicato, tra le righe, come il nemico della democrazia.

Per giunta, tace sul ruolo fondamentale dei militanti comunisti durante la guerra di liberazione. Così come tace sulla matrice neofascista delle stragi a colpi di bombe nell’Italia repubblicana, da Piazza Fontana (1969) in poi, e sul tentativo di golpe (1970) da parte del principe Junio Valerio Borghese, “eroe” di quella Repubblica Sociale Italiana di Mussolini dal quale il vecchio Msi aveva ereditato il simbolo, tuttora presente in quello di FdI.

Successivamente Meloni riprende un discorso fatto da Silvio Berlusconi nel 2009, «quando a Onna, celebrando l’anniversario della Liberazione sulle macerie del terremoto, invitò a fare del 25 aprile la “Festa della Libertà”, così da superare le lacerazioni del passato. Un auspicio che non solo condivido ma che voglio, oggi, rinnovare».

Ebbene, la sua insistenza sulla presunta necessità di cambiare il nome da Anniversario della Liberazione a Festa della libertà nasconde un trabocchetto semantico. La libertà è un dato di fatto, quando possiamo contarci. La liberazione è frutto di un atto consapevole e attivo, necessario per conquistare quella libertà. C’è una netta differenza. Perché l’antifascismo e la Resistenza non sono prosaici ricordi del passato, da insabbiare una volta preso atto di un’ipotetica scomparsa della nostalgia del fascismo storico; semmai sono pilastri fondanti della nostra Repubblica, anche oggi e pure in avvenire (almeno si spera), contro tutti i totalitarismi. Cambiare il nome significa sterilizzare questo significato, cosicché la scelta meloniana appare tutto fuorché casuale.

Poi la premier cita la risoluzione di condanna di tutti i totalitarismi del XX secolo votata a maggioranza dal Parlamento europeo nel settembre 2019: una risoluzione, scrive, «nella quale mi riconosco totalmente, e che il gruppo di Fratelli d’Italia, insieme a tutta la famiglia dei Conservatori europei e all’intero centrodestra, votò senza alcuna esitazione (a differenza, purtroppo, di altri)». La frase «a differenza, purtroppo, di altri» serve per far capire, soprattutto ai suoi fan, che il riferimento è sempre agli “ex comunisti cattivi”, che per lei e il suo giro sono quelli del Pd. Non si tratta di una supposizione. Parlano i fatti.

Si legge su Pagellapolitica.it del 12 ottobre 2021: «Il senatore di Fratelli d’Italia Ignazio La Russa ha criticato su Facebook la mozione parlamentare del Partito democratico che chiede al governo di sciogliere Forza nuova, il movimento di estrema destra al centro degli scontri di Roma del 9 ottobre. Tra le altre cose, il vicepresidente del Senato ha dichiarato che al Parlamento europeo “tutti tranne il Pd” hanno votato a favore di una mozione “contro ogni totalitarismo”». Un punto di vista ripreso poco dopo anche da Giorgia Meloni. «Noi abbiamo votato convintamente, al Parlamento europeo, una mozione di condanna di tutti i totalitarismi del Novecento», ha dichiarato il 9 ottobre 2021 al Corriere della Sera. «L’unico partito che ha avuto problemi a votarla è il Pd italiano, per non dover condannare anche Stalin e la dittatura sovietica».

Difficile non ricordare queste dichiarazioni leggendo l’ultima lettera della premier. Peccato che sia lei sia La Russa abbiano raccontato una frottola. Si legge sempre su Pagellapolitica.it: «Abbiamo verificato che cosa è successo oltre due anni fa nel Parlamento Ue e La Russa sbaglia per due motivi (così come Meloni). La maggior parte degli eurodeputati del Pd – tra cui quelli con un ruolo di primo piano – avevano votato a favore della risoluzione, che aveva ricevuto voti contrari e astensioni da altri parlamentari europei, tra cui quelli del Movimento 5 stelle. […] Dei 18 membri del Pd al Parlamento europeo, contando anche Calenda, tra i voti mancavano quelli di cinque eurodeputati (non comparivano né tra i contrari né tra gli astenuti). Solo due di loro sembrano non aver partecipato al voto per questioni relative al contenuto del testo, Pierfrancesco Majorino e Massimiliano Smeriglio». Lo fecero per ragioni che riguardavano molte carenze nella stesura della risoluzione (frutto di una difficile mediazione tra i Paesi dell’Ue), non la condanna di tutti i totalitarismi, inclusi quelli comunisti.

Morale della favola: tra omissioni ed errori, se c’è un concetto che, a mio modesto avviso, contraddistingue tutta la lettera di Meloni, questo è il tentativo più o meno velato di definire ormai superata ogni reazione, morale e politica, alla dottrina e alla prassi del fascismo.

Insomma, ammesso e non concesso che nella sua area la nostalgia del fascismo si sia improvvisamente volatilizzata, di certo da quelle parti l’antifascismo crea ancora molte reazioni allergiche. Forse è per questo motivo che la premier e presidente di Fratelli d’Italia non sente la necessità, né in quello scritto né altrove, di definirsi – finalmente – antifascista.

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