Il regime fascista che aveva governato l’Italia per vent’anni finisce nell’estate del 1943, con la deposizione di Benito Mussolini il 25 luglio, lo scioglimento del Partito nazionale fascista e l’incarico a Pietro Badoglio. Ma “la guerra continua”, furono ammoniti gli italiani mentre le divisioni tedesche già calavano dal Brennero inaugurando l’occupazione, e la campagna d’Italia degli alleati iniziava la risalita della Penisola. Parte del conflitto è lotta di Liberazione, che inquadra molti italiani nelle formazioni partigiane e durerà venti mesi, fino al 25 aprile 1945, oggi festa nazionale. La data celebra l’anniversario della vittoria sul nazifascismo, perché sconfitta fu l’occupazione militare nazista, ma anche il collaborazionismo della Repubblica sociale italiana (Rsi) che Hitler volle a Salò, sul lago di Garda, e sotto la guida del Duce, liberato dai tedeschi all’indomani dell’Armistizio che il governo Badoglio aveva firmato con gli alleati l’8 settembre 1943. La Rsi è uno “Stato fantoccio” agli ordini di Berlino, militarmente disorganizzato fin dalla catena di comando.

Ma non per questo un “passivo comprimario” del Führer. “La sola cosa di cui non difettava l’esercito di Salò – in particolar modo i reparti autonomi e di polizia – era la violenza, la più estrema, la più vile, la più disonorevole”, scriverà lo storico Angelo Del Boca nel libro Italiani brava gente? (ed. Neri Pozza). Tanti tra i cosiddetti “ragazzi di Salò” si resero responsabili di “un’azione scellerata – dirà il giornalista Giorgio Bocca – che diffamerà la repubblica oltre le sue colpe”. Dalle stragi più note come Marzabotto e Sant’Anna di Stazzema fino allo sterminio degli ebrei, SS italiane e repubblichini furono parte attiva, a volte con più vanto e sadismo degli stessi occupanti. Nella sua recente visita ad Auschwitz, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha ricordato quelle responsabilità: “Bisogna fare memoria dei milioni di cittadini assassinati da un regime sanguinario come quello nazista che, con la complicità dei regimi fascisti europei che consegnarono i propri concittadini ai carnefici, si macchiò di un crimine atroce contro l’umanità”. Un crimine, ha aggiunto il capo dello Stato, “che non può conoscere né oblio né perdono”. Questa che segue, molto in sintesi, è la storia di alcuni di quei crimini.

Quelli che scelsero il Duce – Nell’autunno del 1943 i tedeschi invadono, gli alleati bombardano. Il 9 settembre nasce il Comitato di Liberazione Nazionale (Cln), due settimane dopo la Repubblica di Salò. Nell’Italia occupata, il Duce governa e il Führer comanda. Per vent’anni il fascismo aveva istruito a “credere, obbedire, combattere” e adesso, da un giorno all’altro, i giovani si trovano a fare ciò che i popoli sotto dittatura disimparano: una scelta. Molti combatteranno per Salò, che nel gennaio del 1944 conterà 100mila uomini, dieci volte quelli che fino ad allora avevano preso la via della montagna per diventare partigiani. Biasimarli è fin troppo facile, ma le ragioni sono tante, non ultima la fedeltà a una storia familiare fatta di padri e di nonni già caduti per il fascismo, a una patria identificata nel Duce. Altri, i più, sono “spinti dalle baionette”, come rivelavano i rapporti della Guardia Nazionale Repubblicana dopo che i bandi di Rodolfo Graziani, capo militare della Rsi, avevano imposto la fucilazione dei renitenti alla leva. Alla fine l’esercito di Salò conterà più di 500mila uomini, oltre alle 20mila SS italiane fedeli a Hitler, alle brigate nere di Alessandro Pavolini, alla Decima flottiglia Mas di Junio Valerio Borghese e alla legione mobile Ettore Muti di Francesco Colombo. Una forza che il comando di Graziani controllava a malapena e che i tedeschi vollero lontana dal fronte e impegnata nella guerra civile, contro partigiani e civili. Anche per questo fu una forza frantumata dove “decine di legioni, battaglioni, reparti, bande godevano di una totale o parziale indipendenza”, scrive Del Boca. Com’era stato agli albori del fascismo, in quelle fila entrarono anche fanatici, delinquenti e autentici criminali.

Quelli che scelsero l’atrocità – Dal marzo del ’44 la legione Muti dell’autonominato colonnello Colombo rastrellò Piemonte e Lombardia, torturando e uccidendo civili e partigiani. Il suo quartier generale era a Milano in via Rovello, nella stessa sede che ospita oggi il Piccolo Teatro di Giorgio Strehler e Paolo Grassi. Celle di isolamento e camere di tortura coi muri macchiati di sangue che gli stessi Grassi e Strehler scoprirono nel 1947 entrando in quel luogo. Primo estimatore della Muti era Mussolini, che dopo la visita della caserma scrisse a Colombo per complimentarsi dell’eccezionale tempra dei suoi fascisti. Tristemente noto è poi il Reparto speciale di polizia repubblicana o banda Koch, dal nome del suo comandante, Pietro Koch, già ufficiale poi dedito a furti e rapine. Richiamato nel ’43, grazie all’appoggio diretto del ministro degli Interni Guido Buffarini Guidi recluta la peggiore umanità per estorcere informazioni a quanti finiscono in due delle tante “Villa Triste” disseminate nell’Italia occupata, la pensione Jaccarino a Roma e Villa Fossati a Milano. Non a caso ci fu chi sostenne che era peggio cadere vittime di Koch che dei tedeschi. Non si trattò di casi isolati, come non lo furono le sevizie della Decima MAS, i cui reparti torturarono brutalmente “ragazzi poco più che bambini”, come scrisse la Corte d’assise straordinaria di Vicenza in una sentenza che descrive le atrocità contro le donne, i testicoli legati dei prigionieri, le lingue tagliate, le schiene incise con la X della Decima e l’esposizione pubblica di impiccati e fucilati, come ricorda anche Aldo Cazzullo nel suo Mussolini il capo banda (ed. Mondadori). Altri, per decisione diretta dei comandanti, saranno consegnati ai nazisti e condannati alla deportazione.

Quelli che scelsero lo sterminio degli ebrei – Mussolini sa che fine fanno gli ebrei deportati, quelli che per la Rsi sono “parte di una nazione nemica” (Carta di Verona) e che per un ordine di polizia del 30 novembre 1943 “saranno inviati ai campi di concentramento” passando dai campi italiani di Fossoli, Bolzano e dalla Risiera di San Sabba a Trieste, dove opera anche un forno crematorio. I 163 ebrei rastrellati il 6 dicembre ’43 a Venezia, 114 donne e 49 uomini, sono tutti arrestati da italiani. Partiranno il 22 febbraio 1944 per Auschwitz. Tra loro c’è Primo Levi. Una responsabilità diretta, dunque, che investe prefetture e comandi che – scrive lo storico del fascismo, Renzo De Felice – mostrarono “uno zelo incredibile, fatto al tempo stesso di fanatismo, di sete di violenza, di rapacità”. Non si agisce a caso, ma in base a un chiaro mandato, tanto che nell’immediato dopoguerra molti si difenderanno dicendo che lo imponeva la legge, quella del Duce.

È lui che il 18 aprile 1944 istituisce l’Ispettorato generale per la razza affidandolo a un altro fanatico, Giovanni Preziosi. Fervente antisemita fin dai primi anni ’20, nella Rsi allarga le maglie della persecuzione, delle ruberie e delle confische anche ai cittadini di “origine mista”, ultime vittime di una persecuzione razziale che è nel dna del fascismo fin dalle origini e che, prima degli italiani, consegnerà a Hitler gli ebrei francesi e jugoslavi nel ’41 e nel ’42. Più di 8mila gli ebrei, per un totale di 40mila italiani deportati sotto il governo, se non per mano, della Repubblica di Salò. Molti sono vittime di delatori, compresi i doppiogiochisti che si fanno pagare per aiutarli a fuggire in Svizzera e poi li denunciano per incassare una seconda volta, come racconta lo storico Simon Levis Sullam (I carnefici italiani. Scene dal genocidio degli ebrei, 1943-1945, Feltrinelli), certo che a tradire i loro concittadini ebrei, anche solo per arricchirsi, furono migliaia di italiani.

Quelli che scelsero le stragi – Molti degli eccidi nazisti che insanguinarono l’Italia videro la partecipazione attiva dei fascisti. Le SS italiane alle dipendenze dirette del generale tedesco Peter Hansen Tschimpke “hanno sicuramente partecipato, in posizione ausiliaria, ad alcune stragi compiute dai nazisti, a Marzabotto, a Sant’Anna di Stazzema, a Bardine di San Terenzio, a Vallucciole”, scrive Del Boca. E aggiunge: “La violenza, nella storia della Rsi, è stata anche sadismo”. Cosa si intende per “posizione ausiliaria”, poi, lo raccontano i fatti. I collaborazionisti che all’alba del 12 agosto 1944 condussero le divisioni tedesche a Sant’Anna di Stazzema, raccontarono i sopravvissuti, parlavano in versiliese, erano figli della stessa terra.

Inoltre, gli italiani erano parte della 16esima divisione corazzata, composta in gran parte da ragazzi tra i 17 e i 20 anni per un totale tra i 10mila e i 12mila uomini. Di questi, gli italiani erano quasi la metà, come dopo la guerra confermeranno i comandi tedeschi. Ancora una volta, non tutti arruolati per convinzione, come quelli reclutati dai campi di concentramento. Ma non mancano volontari e sbandati dell’esercito regolare disciolto dopo l’8 settembre. “Lo storico Carlo Gentile, tra gli esperti chiamati a deporre nel processo del tribunale militare di La Spezia, ha individuato 25 repubblichini arruolati nella 16esima divisione Reichsführer, per gradi che andavano dai soldati scelti ai sergenti”. Arruolare collaboratori, delatori e spie non è del resto una novità ma una pratica ben nota a tutte le dittature del secolo scorso di cui il fascismo è l’apripista, “primo esperimento di ingegneria sociale volto a costruire un sistema totalitario nel 20esimo secolo”, come spiega lo storico della mentalità Francesco Filippi al fattoquotidiano.it.

Quelli che scelsero di non fare giustizia – Particolarmente zelante nell’uso più o meno forzato di spie e delatori fu l’Ispettorato speciale di pubblica sicurezza per la Venezia Giulia, istituito nel ’42 per contrastare l’attività partigiana slovena e diretto dal questore Giuseppe Gueli, che si distingue per crudeltà, superato solo dal suo vice commissario, Gaetano Collotti, collaborazionista della Gestapo. A Trieste, le sedi dell’Ispettorato che prese il nome di banda Collotti, in via Bellosguardo prima e in via Cologna poi, si guadagnarono il nome di “Villa Triste” per i metodi usati e per essere state spesso l’anticamera della Risiera di San Sabba. Il triestino Jordan Zahar, allora sedicenne, fu arrestato dalla banda nel paese di Boršt (S. Antonio in Bosco), nel Carso sopra Trieste, e lì torturato con l’elettricità da Collotti in persona, mentre i tedeschi circondavano il villaggio. Infine, con altri 17 tra cui ragazze minorenni, donne e vecchi, fu condotto in via Cologna, dove il supplizio continuò.

E dove alla fine della guerra, nel dicembre ’45, dovette tornare per il rilascio della carta d’identità. Gli uffici preposti erano stati sistemati proprio nelle stanze delle torture. “Ero quasi deciso ad andarmene e rinunciare a richiedere i documenti. Vidi anche che due degli agenti di Collotti erano rimasti a lavorare lì, li avevano adibiti al servizio carte d’identità. Anche loro mi riconobbero, ma non ci dicemmo nulla”, raccontò alla giornalista Claudia Cernigoi (La “banda Collotti”. Storia di un corpo di repressione ai confini orientali d’Italia, ed. Kappa Vu). Collotti fu ucciso dai partigiani durante la fuga, mentre Gueli fu condannato a otto anni e subito rimesso in libertà grazie all’amnistia del giugno 1946 voluta da Palmiro Togliatti, ministro di Giustizia nel primo governo De Gasperi, l’ultimo del Regno d’Italia.

Una scelta che consentì a criminali come Graziani, Roatta, Borghese e a centinaia d’altri di lasciare il carcere addirittura dopo pochi mesi, confermando i timori di un’epurazione di facciata che indignò molti e portò ai fatti di sangue di cui si resero responsabili i partigiani che nel ’46 ripresero le armi in molte province del Nord. Il colpo di spugna, come passò alla storia l’amnistia, attribuiva alla guerra le responsabilità dei singoli, le loro violenze. Che non erano durate venti mesi ma vent’anni, figlie dello stesso regime fascista che mai salirà sul banco degli imputati. La violenza della Repubblica sociale, scriveva ancora Angelo Del Boca, “si riallaccia all’olio di ricino, che umiliava orribilmente la vittima del sopruso. Si riannoda al manganello, alla pistola, al pugnale, alla bomba a mano, ossia agli strumenti delle squadracce antemarcia. Si ricollega alle forche rizzate in Libia e in Etiopia; ai plotoni di esecuzione impiegati nei Balcani; all’uso del fuoco come punizione totale”. E ancora: “C’è sicuramente, in altre parole, una forte continuità tra il Ventennio fascista e la repubblica dei 600 giorni”.

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