di Mikhail Maslennikov*

A un mese dall’approvazione da parte del Consiglio dei Ministri, il disegno di legge delega per la riforma fiscale ha iniziato giovedì il proprio iter di conversione parlamentare. Lungi dal rappresentare una “rivoluzione” fiscale, la riforma del governo Meloni manca di una visione coerente del sistema tributario, rischia di peggiorarne l’equità orizzontale e verticale e di moltiplicarne inefficienze e complessità. Resta inoltre aperto il nodo del finanziamento dei decreti attuativi da emanare entro 24 mesi dall’approvazione della delega da parte del Parlamento.

Una riforma fiscale degna di tale nome dovrebbe avere come punto di partenza la realizzazione di un chiaro modello di sistema impositivo, come strumento di politica economica. Tale impostazione però manca del tutto nel costrutto governativo, che si occupa di questioni specifiche relative alle singole imposte in modo disorganico, senza badare alle interazioni tra le componenti dell’intero sistema fiscale.

Il ddl non si focalizza sull’indispensabile ricomposizione complessiva del prelievo, non opera alcuna valutazione sul peso relativo tra imposte dirette e indirette o sullo spostamento della tassazione dai redditi da lavoro ad altre basi imponibili. Una ridistribuzione dei carichi fiscali che appare invece imprescindibile in un contesto, come quello italiano, in cui la quota dei redditi da lavoro sul Pil è in calo da anni e il prelievo sul lavoro supera di tre volte quello su profitti, rendite ed interessi.

Obiettivo flat tax e compressione della progressività

Per la tassazione personale il modello di riferimento a regime è la flat tax, un sistema poco equo e molto costoso affermatosi in Paesi con livelli di Pil di gran lunga inferiori a quelli dell’Europa occidentale e con una quota di spesa sociale minore. Applicato all’Italia il sistema ad aliquota unica rischia di rendere impossibile il finanziamento degli attuali livelli di spesa pubblica, a fronte di un fabbisogno crescente, in comparti come sanità ed istruzione, costringendo il governo a tagli significativi del welfare.

Nella delega il governo insiste nel voler arrivare gradualmente al modello di flat tax nel pieno rispetto del “principio di progressività”. Non v’è dubbio che una flat tax con una deduzione o detrazione uguale per tutti risulterebbe ancora progressiva, ma lo sarebbe meno rispetto all’attuale sistema.

La prospettata compressione della progressività e del potere redistributivo dell’Irpef, già oggi esiguo, rischia così di porre il nostro sistema fiscale definitivamente fuori dal dettato costituzionale, che all’articolo 53 richiede ai contribuenti più facoltosi di sopportare un prelievo più che proporzionalmente maggiore rispetto ai meno abbienti.

La tesi governativa che una flat tax ad aliquota bassa agevolerebbe la formazione di nuovo reddito e scoraggerebbe l’evasione non ha inoltre alcun robusto riscontro empirico, a fronte di costi elevati per le casse pubbliche e maggiori benefici per i redditi più elevati. Comprenderlo a pieno sarebbe fondamentale per scrollarsi di dosso la potente suggestione che il modello di flat tax evoca, quella di una generalizzata riduzione delle imposte che non possono aumentare per qualcuno ma devono solo e sempre essere ridotte per tutti.

Per dovere di cronaca va ricordato come nei paesi in cui il modello di flat tax è stato adottato, la sua introduzione è stata accompagnata da un ampliamento della base imponibile, a partire dal riassorbimento dei regimi agevolativi. Il governo intende seguire questo orientamento a lungo termine? Nell’immediato le intenzioni dell’esecutivo sono ben altre.

Equità orizzontale: un principio non perseguito

L’attuale erosione dell’Irpef tra esenzioni e regimi sostitutivi – pesante eredità di governi passati di ogni colore politico – viene infatti ulteriormente ampliata nella delega con la previsione di tassazione agevolata degli incrementi del reddito (flat tax incrementale) o l’estensione della cedolare secca agli immobili adibiti ad attività commerciali. Con buona pace di un regime, come quello della cedolare secca, che ha comportato un saldo netto negativo dal punto di vista della finanza pubblica e non ha prodotto nessun effetto significativo di riduzione del prezzo di mercato degli affitti.

Per esigenze di gettito, l’ulteriore cedolarizzazione appare più definitiva che transitoria. Con buona pace del rispetto del principio di equità orizzontale, che richiede l’uniformità del prelievo per cittadini con le stesse capacità economiche o condizioni personali. Gli interventi nel ddl sono invece destinati ad accentuare ulteriormente i trattamenti fiscali differenziati tra contribuenti con redditi uguali ma di natura diversa.

Il nodo delle risorse

Il nodo delle coperture della riforma non è da sottovalutare. Il ddl impone che la riforma non comporti nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e che la pressione tributaria non aumenti rispetto a quella a legislazione vigente. L’unica fonte di gettito esplicitata nella delega deriverebbe dalla revisione delle spese fiscali. Difficile che da una simile revisione – che escluderebbe verosimilmente le spese con “finalità meritorie” come la sanità, l’efficientamento energetico, ecc. – possa emergere un gettito in grado di finanziare la riduzione del carico fiscale prospettata negli articoli del ddl.

Appaiono necessarie altre compensazioni con l’opzione, tutt’altro che scongiurata, di cercare spazi di manovra a monte, magari con tagli alla spesa pubblica. Un’ipotesi con implicazioni sociali gravi per un Paese al centro di una acuta policrisi.

Il governo menziona di voler attingere risorse dal fondo di riduzione della pressione fiscale che contiene maggiori entrate derivanti, in modo permanente, dal contrasto all’evasione fiscale. La dote del fondo appare però insufficiente se si pensa che i provvedimenti, come la fatturazione elettronica o lo split payment, che hanno permesso negli ultimi anni un significativo recupero dell’evasione Iva, hanno già dispiegato i propri effetti e la tendenza, in decrescita, alla riduzione del gap Iva si è addirittura invertita nel 2020. Ulteriori provvedimenti di contrasto all’evasione sembrerebbero pertanto imprescindibili.

Le “ambiguità” sul contrasto all’evasione

Nel solco della delega del governo Draghi, il ddl mostra inoltre l’intenzione di voler consentire all’Agenzia delle Entrate il pieno utilizzo dei dati dei contribuenti e l’interoperabilità delle banche dati cui generalizzare le procedure di analisi del rischio fiscale. Procedure che farebbero emergere posizioni a maggior rischio su cui concentrare prioritariamente le attività di controllo. Scopriremo col tempo se dare attuazione a questi intendimenti sia davvero nella volontà politica delle forze di maggioranza che nelle legislature passate non hanno esitato ad osteggiare tale approccio, ritenendolo intrusivo della privacy.

A voler usare un generoso eufemismo, le intenzioni del governo sul contrasto all’evasione appaiono ambigue. Invocando tregue e paci fiscali il governo ha già approvato dodici condoni in legge di bilancio proseguendo, nel ddl, con minori sanzioni, depenalizzazioni, tassi di interesse ridotti, differimenti dei pagamenti e definizioni agevolate che sviliscono la “fedeltà fiscale” e incentivano comportamenti opportunistici.

Non bastasse ciò, il governo sdogana l’“evasione di necessità”: dichiarare tutto ma non pagare le imposte non deve considerarsi un atteggiamento sanzionabile.

Ci sono certamente casi di contribuenti in difficoltà col versamento delle imposte cui prestare attenzione. Ma concedere benefici tout court senza controlli effettivi sulle difficoltà economiche equivale a una regalia a chi non vuole, pur potendo, versare le imposte.

I lavori parlamentari stanno per iniziare, ma con le premesse delineate è difficile immaginare che la delega porti a un sistema di tassazione più efficiente, equo e all’altezza delle sfide del Paese.

*policy advisor su giustizia fiscale di Oxfam Italia

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