Sono passati sette anni dall’adozione dell’Accordo di Parigi, nel 2016, e in questo arco di tempo le 60 maggiori banche del mondo hanno finanziato il settore dei combustibili fossili con circa 5.500 miliardi di dollari attraverso prestiti e sottoscrizioni di obbligazioni e di azioni: 673 miliardi solo nel 2022. Nonostante lo scorso anno le compagnie del settore abbiano realizzato profitti per 4 trilioni di dollari. Nello stesso periodo, UniCredit e Intesa San Paolo hanno elargito più o meno in modo costante 42,8 miliardi la prima (5,7 miliardi solo nel 2022) e circa 21 miliardi la seconda (3,2 miliardi nel 2022). Entrambe sono tra le prime 45 banche a livello mondiale che finanziano le multinazionali coinvolte nell’espansione dell’industria fossile, tra cui Eni e Total. Sono alcuni dei dati emersi nel nuovo report Banking on Climate Chaos, curato da Reclaim Finance, Oil Change International, Rainforest Action Network, BankTrack, Indigenous Environmental Network, Sierra Club, Urgewald e promosso da oltre 550 organizzazioni provenienti da più di 70 paesi, tra cui ReCommon. Il dossier fa il punto su una parte significativa dei finanziamenti al settore dei combustibili fossili e racconta di come le grandi banche internazionali continuino a iniettare immense quantità di liquidità alle compagnie, nonostante gli accordi internazionali sul clima. Basti pensare a quanto sia controverso persino l’addio al carbone: cala il finanziamento alle società che estraggono, sale lievemente quello delle banche di Canada e Usa, mentre dei 13 miliardi di dollari andati nel 2022 alle 30 più grandi società di estrazione del mondo l’87% è arrivato da banche cinesi.

Finanziamenti a pioggia sui combustibili fossili – L’americana JpMorgan Chase resta quella che ha più sostenuto il settore dal 2016 al 2022, con un totale di 434 miliardi di dollari solo di prestiti e sottoscrizioni ma, guardando ai finanziamenti del 2022, al primo posto c’è la Royal Bank of Canada, con 42,1 miliardi. Nella classifica degli istituti di credito che più hanno elargito negli ultimi sette anni, però, la banca canadese è quinta (con 254 miliardi) dopo le americane JpMorgan Chase, Citi, Wells Fargo e Bank of America. Di fatto le banche Usa rappresentano il 28% dei finanziamenti nel 2022, anche se cresce il sostegno al settore da parte di banche canadesi, europee e cinesi. Unicredit è tra le 15 banche che, tra il 2021 e il 2022, hanno più incrementato i finanziamenti (del 17%, 834 milioni di dollari in più). “Intesa San Paolo e UniCredit, le due più grandi banche italiane, sembrano ignorare gli allarmi della comunità scientifica e continuano a finanziare l’espansione dell’industria del petrolio e del gas, fiutando nuove opportunità di business, come nel caso del gas naturale liquefatto (Gnl)” spiega Daniela Finamore, campaigner finanza e clima di ReCommon, sottolineando che si tratta “di profitti realizzati a scapito delle comunità in prima linea che stanno già subendo i peggiori impatti dei cambiamenti climatici”.

Un’espansione incompatibile con gli obiettivi climatici – Il Panel intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc) è stato chiaro: qualsiasi nuovo sviluppo di combustibili fossili dopo il 2021 è incompatibile con il mantenimento del riscaldamento globale sotto 1,5 ̊C, mentre potenziali emissioni da pozzi già perforati o in fase di perforazione o da miniere già scavate portano già il mondo ben oltre i 2°C. Eppure, “59 delle 60 banche analizzate non dispongono di politiche sufficientemente solide per restare sotto 1,5°C”, mentre 53 banche hanno sostenuto con 150 miliardi di dollari (solo nel 2022) le 100 aziende che più espandono le loro attività, con nuovi progetti o aggiungendo nuova capacità, come TC Energy, TotalEnergies, Venture Global, ConocoPhillips e Saudi Aramco. Con Eni in prima fila, nel 2022 anche Unicredit ha finanziato questi colossi con 633 milioni (8,8 miliardi dal 2016), mentre Intesa San Paolo è arrivata a 1,8 miliardi (6,2 dal 2016).

Il sostegno al Gnl, nonostante i lauti profitti – Il 2022 è stato un anno di lauti profitti per le società coinvolte nel business del gas naturale liquefatto (Gnl). In seguito all’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione Russa, le 30 aziende più attive hanno approfittato della crisi (e della crescita della domanda) per espandere la propria attività e assicurarsi quasi il 50% in più di finanziamenti nel 2022 rispetto al 2021, passando da 15,2 miliardi di dollari a 22,6. “Tra i casi presentati – sottolinea ReCommon – c’è quello del Golfo del Messico, martoriato dall’espansione dell’industria del Gnl, che vede Intesa Sanpaolo protagonista con copiosi finanziamenti a compagnie quali Cheniere, ExxonMobil e Freeport LNG”. Per nuove estrazioni ed esportazioni l’Europa guarda a Mozambico e Nigeria. Dal 2016 al 2021, Intesa San Paolo ha finanziato il settore con 1,6 miliardi (54 milioni nel 2022), Unicredit con 155 milioni di dollari, sborsati anche per Coral South, una nave galleggiante Gnl situata nella provincia più settentrionale del Mozambico, Paese segnato da conflitti interni e ricca di risorse energetiche, mentre recentemente si è tirata fuori da Rovuma LNG, a guida Eni, il più grande dei progetti di gas naturale liquefatto in Mozambico.

Dall’Artico all’Amazzonia – Nel 2022, le banche hanno finanziato con 754 milioni di dollari l’estrazione di petrolio e gas in Amazzonia da parte delle società maggiormente attive nell’area. Lo scorso anno a sborsare di più è stata la spagnola Santander (169 milioni), al sesto posto nella classifica degli ultimi sette anni. Ventinove banche non finanziano compagnie con prestiti e sottoscrizioni dal 2016, mentre 40 non lo hanno fatto nel 2022. Continuano a farlo, invece, Unicredit (6 milioni nel 2022, 30 milioni dal 2016) e Intesa San Paolo che, nonostante preveda limiti al finanziamento a società che estraggono in aree particolarmente a rischio, ha finanziato le compagnie per 6 milioni nel 2022, 15 milioni dal 2016. Altro capitolo è quello delle estrazioni nell’Artico. Nel 2022 su 60 banche analizzate, 26 hanno finanziato questo tipo di operazioni. Con 11 milioni nel 2022 e circa un miliardo dal 2016 lo ha fatto Intesa San Paolo, che non finanzia progetti off-shore, ma su terraferma sì. Due le operazioni che la vedono coinvolta: Yamal Lng e Artic Lng-2 nell’artico russo. Nel 2022 Unicredit è ferma, anche se dal 2016 ha sborsato 2,5 miliardi, tanto da essere seconda solo a JP Morgan Chase tra le compagnie che hanno finanziato di più dall’adozione dell’Accordo di Parigi. In prima linea nel 2022 le banche cinesi. Ma non sono certo le sole, anche grazie ad alcuni escamotage. Dopo anni di pressione, infatti, le principali banche statunitensi si sono impegnate a escludere il finanziamento di progetti nell’Artico, ma tenendo conto di una definizione molto ristretta di ‘Artico’, che include solo il Circolo Polare Artico. A marzo 2023, così, l’amministrazione Usa guidata da Joe Biden ha approvato il progetto petrolifero Willow della ConocoPhillips che prevede la trivellazione di petrolio e gas in tre siti nella National Petroleum Reserve e che dovrebbe consentire l’estrazione di 629 milioni di barili di petrolio nei prossimi 30 anni.

Impegni e alleanze, terreno del greenwashing – Eppure, delle 60 banche interessate nel rapporto, 49 si sono impegnate sulla carta con obiettivi che puntano alle emissioni nette zero e 43 fanno parte della Net-Zero Banking Alliance, l’alleanza lanciata in pompa magna anche alla Cop 26 di Glasgow e che mette insieme alcune centinaia di banche pronte, sulla carta, ad allineare i propri portafogli di prestiti e investimenti all’obiettivo delle zero emissioni di gas serra. Queste stesse 43 banche, tra cui Unicredit e Intesa San Paolo, solo nel 2022 “hanno finanziato le prime 100 aziende che più espandono i loro progetti nei combustibili fossili con 111,6 miliardi di dollari”. Non si tratta solo di promesse disattese, ma anche, spiegano gli autori, del rischio che istituzioni, società e banche sostengano progetti “basati su false soluzioni alla crisi climatica, come l’utilizzo delle compensazioni delle emissioni di carbonio e tecniche come la cattura e lo stoccaggio di anidride carbonica”. Il report racconta, inoltre, diverse storie che legano a doppio filo i combustibili fossili alla violazione dei diritti umani, dall’Alaska alla Nigeria, e affronta il tema delle popolazioni indigene. Raccontando, per esempio, la storia dei popoli indigeni Wet’suwet’en nel Nord della British Columbia del Canada occidentale: hanno resistito per anni all’espansione dei gasdotti sulla loro terra sacra, incluso il Coastal GasLink finanziato anche dalla Royal Bank of Canada. Un progetto a cui i capi ereditari non hanno mai dato il consenso, ma il fracking – tecnica che prevede l’estrazione di petrolio e gas naturale iniettando acqua e sostanze chimiche nel terreno ad alta pressione – è andato di pari passo con le violazioni dei diritti umani.

Articolo Precedente

Morsa da un lupo mentre tenta di difendere il suo cane: il racconto di un sindaco in provincia di Lucca

next
Articolo Successivo

Germania, stop alle ultime centrali nucleari. Ma il governo litiga: i liberali premono per continuare a studiare “tecnologie sicure”

next