Tossicomani fuori dal carcere”. L’uscita del sottosegretario alla Giustizia Andrea Del Mastro con le anticipazioni di una possibile riforma sul settore spiazza gli operatori del Terzo Settore che esprimono tutta una serie di dubbi o temono sia solo un fuoco di paglia. Di sicuro è stata l’innesco per nuove tensioni nel governo. Si torna a parlare di quel 30% di carcerati – 20.700 per l’esattezza – affetti da dipendenze che affollano istituti di pena con 5mila detenuti in più della capienza regolare e tutte le conseguenze del caso a partire dalla certezza che la funzione della detenzione ai fini della riabilitazione – come recita l’art. 27 della Costituzione – è una sconfitta quotidiana, certificata dalla condanna della Corte di Strasburgo per il sovraffollamento di celle in cui solo l’anno scorso si sono tolte la vita 84 persone. Ma il primo effetto, è una spaccatura politica tutta interna al centrodestra.

E’ scontro tra Lega e Fdi
Del Mastro illustra la proposta a cui sta lavorando “in accordo col ministro Nordio” al Messaggero. L’uscita ha immediatamente innescato uno scontro politico tra alleati di governo e perfino dentro Fratelli d’Italia. La Lega si mette di traverso. Il partito di Salvini vede il tema come un dito nell’occhio, in base all’assunto per cui i piccoli reati tipici di chi cerca di procurarsi una dose “spaventano i cittadini” e dunque gli elettori. Il bilancino delle poltrone ha fatto sì che alla Giustizia ci siano due sottosegretari, muniti della stessa delega sdoppiata, ora in lotta: a Del Mastro si contrappone infatti il niet di Pietro Ostellari che si dice contrario al “liberi tutti”. I ferri sono cortissimi e il disappunto per la fuga in avanti è un problema nello stesso partito di Meloni. Il terzo incomodo sarebbe il viceministro del Lavoro Maria Teresa Bellucci, che Giorgia Meloni ha delegato al Terzo Settore, ruolo che ricopre in Fratelli D’Italia insieme alle dipendenze. Insieme al sottosegretario a Chigi Alfredo Mantovano, che ha le deleghe per le politiche contro le droghe, ha avviato un dialogo con le comunità terapeutiche. La scorsa settimana l’ultimo tavolo di confronto. Viene però ora superato a destra, con il placet di Nordio, fosse anche per dare un afflato “sociale” alle riforme della giustizia che sta preparando, concentrate sull’interdire l’azione dei magistrati (ritorno della prescrizione, stop all’abuso d’ufficio, niente appello dei pm…) e i diritti a informare dei giornalisti. Il fastidio del viceministro è coperto dal silenzio: l’abbiamo cercata, ma Bellucci ha preferito non commentare. In attesa di capire chi la spunterà, o se la rivalità politica finirà finirà per ricongelare il tema, vediamo di che cosa si tratta.

Tra carcere e comunità
Del Mastro punta a modificare la materia sotto sotto il profilo giudico-normativo, ipotizzando non sia più il giudice di sorveglianza a convertire l’esecuzione della pena definitiva in una comunità di recupero bensì direttamente quello di dibattimento davanti al quale viene condotto l’autore del reato connesso alla sua tossicodipendenza. Astrattamente, il principio non fa una grinza: è ormai acquisito che l’ingresso in cella non sia una risposta adeguata ai bisogni dei tossicodipendenti, come indicato da 30 anni nella legge che ancor oggi regola la materia (Dpr 1990) che fa riferimento a “istituti idonei” per programmi terapeutici e di riabilitazione. In concreto, però, si fa anche notare come nell’ordinamento l’affidamento in prova alle comunità esista da tempo (art. 94 del Testo unico in materia di stupefacenti) per chi deve scontare pene fino a sei ani e non abbia dato i risultati sperati per un concorso di cause, tra le quali mancanza di fondi, personale e regole su cui il legislatore non è più intervenuto. Ma la soluzione presenta anche limiti pratici più immediati: sarebbe impossibile, ad esempio, inviare in comunità un soggetto che non ha ancora un Piano terapeutico predisposto dal Sert, per il quale occorrono tempi diversi, in attesa dei quali non è neppure chiaro dove il tossicodipendente soggiornerebbe. Idem per la sorveglianza e le sanzioni in caso di evasione o di rifiuto della terapia.

La reazione (imbarazzata) degli operatori
Questo spiega la reazione del Terzo Settore, colto di sorpresa come davanti a un fulmine a ciel sereno. Da una parte perché il confronto finora è avvenuto con il duo Bellucci-Mantovano, dall’altra perché le anticipazioni fornite da Del Mastro ai giornali avrebbero un alto tasso di improvvisazione e un basso livello di conoscenza della complessità della materia, lato comunità, lato fondi, lato cure e così via. Ad esempio quando cita “comunità chiuse stile Muccioli (cioè San Patrignano) per costruire un percorso alternativo alla detenzione”. Perplessità le ha espresse ad esempio il Coordinamento Nazionale Comunità di accoglienza (Cnca) che da 40 anni ha una rete di 300 strutture capaci di farsi carico di 4mila persone l’anno. La presidente Caterina Pozzi sottolinea che “a livello normativo sono già previsti percorsi alternativi, poco usati e non sufficientemente sostenuti. E’ impensabile tornare a un modello di comunità di alcune esperienze degli anni ‘80”. Dubbi condivisi dalla Federazione italiana delle comunità terapeutiche (Fict) che su 5.731 utenti ne ha un 20% provenienti dalle carceri, in pene alternative. Il suo presidente, Luciano Squillaci, dice a Il Dubbio: “Giusto garantire percorsi educativi reali, ma a nostro avviso replicare regimi carcerari in strutture alternative o peggio ghettizzare persone con dipendenza con situazioni giudiziarie non rappresenta una soluzione”. Del Mastro ha spiegato che l’affidamento del giudice in alternativa alla pena sarebbe condizionato alla permanenza negli istituti per la disintossicazione. “Sarebbe una possibilità secca, non reiterata. Se commetti un reato e torni in carcere da tossicodipendente dopo aver scontato la pena in una struttura di recupero, devi affrontare l’iter normale”. Cioè andare in cella. E in caso di evasione “la comunità sarà controllata 24 ore su 24, se scappi hai bruciato la tua seconda possibilità e sarai perseguito per il reato di evasione”. Qui si vede la crepa nel costrutto (e nella competenza) che il sottosegretario nella sua uscita pubblica quasi rivendica: “Vede sono un giurista basico, incarno l’uomo medio ma è questa posizione che ci fa prendere voti”.

La confusione regna sovrana
Con il rischio però di seppellire sotto il peso di soluzioni impraticabili l’occasione di cambiare davvero le cose e per il giusto verso. “In realtà – ricorda l’avvocato Raffaella Tucci di “L’Altro Diritto” – l’esecuzione alternativa della pena in comunità esiste già ma avviene su proposta di parte ed è stabilita dal giudice di sorveglianza per una ragione essenziale: il soggetto deve essere in carico al Sert che fa il piano terapeutico, e nel frattempo deve soggiornare in una struttura che lo segua, che sia sorvegliata etc. Se ce la fanno, benissimo, ma non si fa dall’oggi al domani e al momento, anche attivando tutte le strutture, i posti non sono sufficienti. Inoltre, non si capisce bene cosa succede se il soggetto non vuole entrare in comunità, gli si fa il Tso?”. Il tema delle strutture e dei fondi è centrale in questa sfida, e non è privo di rischi. Del Mastro cita il costo di 137 euro al giorno per ogni detenuto tossicodipendente. E dunque ipotizza un risparmio per lo Stato ma anche per il suo ministero, mentre la sua proposta finisce giocoforza per dirottare quei costi sui Sert che sono regionali, e le regioni di soldi non ne hanno. E allora, come nella sanità pubblica a corto di fondi, spunta il “privato da coinvolgere”.

Il privato che avanza
Parola che allerta Achille Saletti, presidente della associazione Saman, che dirige da oltre 10 anni una rete di servizi ambulatoriali e residenziali finalizzati alla cura delle dipendenze: “Dietro chiacchiere da bar, perché per ora di questo si tratta, vedo molti problemi e proprio a partire dalle strutture. Dal 1994 ad oggi gli invii, con una componente in arrivo anche dalle carceri, si sono dimezzati passando da 28 a 13mila e di riflesso le strutture sono passate da 1200 a 600 strutture. Quindi se domani ci fosse un invio massiccio di tossicodipendenti non si saprebbe dove metterli”. A meno che nel richiamo che Del Mastro al privato “non intenda surrettiziamente privatizzare il settore”. Perché credere che un privato prenda un albergo e lo trasformi in comunità dall’oggi al domani “è un’illusione bella e buona, le comunità terapeutiche sono assoggettate a un qualsiasi altro intervento sociosanitario, hanno requisiti ben precisi sotto il profilo sanitario ma soprattutto degli spazi strutturali”. Anche Saletti rileva l’anomalia dell’uscita. “Settimana scorsa abbiamo fatto un tavolo con la Bellucci che ha la delega al Terzo settore e quantomeno ha una competenza specifica sul tema delle tossicodipendenze. Conosce bene le sue problematiche”.

Gli esempi si sprecano. “Abbiamo regioni intere come il Lazio, la Sicilia e la Campania che devono ancora regolamentare in termini di requisiti le comunità specialistiche, che sono proprio quelle che accolgono un’utenza che ha una diagnosi di dipendenza e psichiatrica, ma anche ragazze madri. A questo punto siamo”. E dove dovremmo essere invece? “Dovremmo tarare il sistema sui nuovi consumi perché se è vero che non siamo più negli anni Ottanta è anche vero che intercettiamo si e no il 10% dei dipendenti, il 90% ci sfugge completamente. L’idea di comunità come “luogo di pena”? “E’ un’idea vecchia e già fallita. Per evitare disastri io partirei con l’aprire dei centri diurni in carcere, delle sezioni dedicate in cui si fa comunità, con attività vere, strutturate sul lavoro che serve a rielaborare la dipendenza. C’è tanto da fare. Il Tribunale per dire fa una richiesta per un posto in comunità, si fa di tutto per trovarlo ma poi passano i mesi e alla fine quel posto non c’è più perché non lo si può tenere sospeso sottraendolo ad altri. Ecco, quello che dico è che prima di avventurarsi in soluzioni fantasiose e rischiose si faccia funzionare quello che c’è”.

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