Musica

Lucio Battisti, “il più grande cantante italiano”

Il giornalista e critico musicale Ernesto Assante in libreria con Lucio Battisti (Mondadori). Una biografia magistralmente lineare inseguendo l’irripetibile peculiarità del genio senza perdersi in inutili pruderie. E un aneddoto su Mina e Celentano che sa di capolavoro mancato

di Davide Turrini

Emozioni , Acqua azzurro acqua chiara, Il mio canto libero, La canzone del sole, Non è Francesca, Fiori rosa fiori di pesco, Anna, Il tempo di morire, Mi ritorni in mente, 7.40. A staccare i petali capolavoro della margherita Battisti intanto ti si stancano le dita. Poi ti ci vuole un enorme vaso per contenerli tutti. Ogni brano una gemma. Ogni canzone una innovazione. Ogni pezzo una sorpresa. E poi Battisti lo cantano tutti. Anche quelli che nel 1976 ignudi, hippie, contestatori saltellavano su e giù per il parco Lambro. Battisti caput mundi. Almeno quello della canzone italiana che tra gli anni sessanta e settanta si dimena tra beat, cantautorato, impegno politico (linea verde, gialla e rossa ve le spiega Assante nel libro); e ancora negli ottanta/novanta tra il rock progressive, l’elettronica, l’ermetismo e l’oblio. Battisti incarna la trasformazione di un pop elaborato e commerciale, di una melodia orecchiabile dalle rime, pause, intonazioni inconsuete. Ancora meglio, proprio come scrive Ernesto Assante nel suo Lucio Battisti (Mondadori): “Un mito senza tempo”, un’artista “capace di essere accessibile ma concettuale, rivoluzionario ma popolare”. Sì, viaggiare, sembra dire Assante mentre si sfoglia la biografia battistiana. Da Poggio Bustone in provincia di Rieti dove appare quel carretto che poi tornerà ne I giardini di marzo, poi su e giù per le date dei locali da ballo, dei club di Roma e Napoli dove Battisti ancora non canterino suona solo la chitarra (bene) in piccoli gruppi sul limitare dell’età adulta, chiudendo serata quando non c’è più nessuno al pianoforte con Georgia on my mind di Ray Charles. Autodidatta Lucio. Con la Eko elettrica a prezzo popolare che fa diventare strimpellatori anche chi non ha le possibilità di accademie, scuole, maestri. Il ragazzo si fa notare per le sue composizioni, anche se Celentano come cantante lo scarta, che subito nel’66 diventano i primi mattoni del sodalizio del già famoso Mogol. “C’è tutta la purezza della cristallina superbia battistiana nel libro di Assante, come tra le linee di una carriera che prima, almeno per quattro-cinque anni, sostanzialmente tra il ’67 e il ’71, si fa sentire, amare e cantare con un repertorio che è già canzone da doccia e da spiaggia, da cameretta e da piazza. Poi mentre i giovani impegnati politicamente (ah i testi!) lo interpellano con determinazione in tv a Speciale per voi nel ’70 da Arbore, Battisti si scuote infastidito scrollando i foulard colorati annodati alla John Wayne nei film di Ford e spiega che a lui con le sue canzoni basta far emozionare (“cambia il mondo una canzone alla volta”). Prima della cavalcata vera da Milano a Roma con Mogol nel giugno del ’70, quella che ispirerà Battisti per Emozioni, ecco che Assante infila i termini sostanziali della peculiarità battistiana: i rifiuti (Sanremo a parte il ’69; Canzonissima; i musicarelli e il cinema tout court); i ruffiani (Gianni Morandi e Massimo Ranieri); i brani che sembrano dei piccoli film (di 7.40 dice anche pare di vedere una delle opere di Francois Truffaut); l’allontanamento dai giornalisti (ultima intervista alla tv svizzera nel 1979). L’indipendenza produttiva e creativa di una propria etichetta (Numero Uno) e di uno spazio isolato (il mulino con casale ad Anzano del parco) dove comporre senza aver l’assillo dei turnisti ma attorniandosi di amici musicisti (andiamo a memoria facendo torto a mille: Radius, Dall’Aglio, Pappalardo, Montalbetti) fa di Battisti il numero uno. Lucio con quella voce anomala, tra l’afono e il falsetto, diventa vertice assoluto della musica leggere italiana per almeno cinque sei album nei settanta. E quando nel 1978 l’album Una donna per amico veleggia primo per settimane, e pere l’ultima volta dopo dieci anni nei 33 giri, al secondo posto c’è pure Mina che canta Battisti. “Ogni sussurro, ogni grido, ogni falsetto, ogni singhiozzo ha un senso nelle canzoni di Battisti: rendono il testo vero e comprensibile a chiunque, anche quando le parole sono misteriose, anche quando la vicenda raccontata non è chiara”, scrive Assante nel ricordare l’accostamento vocale con i grandi del soul e del rhythm and blues americano (Otis Redding, Wilson Pickett, Percy Sledge). Anche se negli anni della consacrazione c’è anche un estimatore d’eccezione, Ennio Morricone che, estasiato dalla voce di Battisti scomoda il paragone con “i canti gregoriani”. Il popolare e l’avanguardia dei settanta si sbilanciano poi del tutto nell’avanguardia pura degli ottanta, di cui Assante è grande estimatore, e al libro rimandiamo (Pasquale Panella). Ma è su quella naturale idea di isolamento graduale, di auto cancellazione dallo showbiz che Battisti inseguì con costante cocciutaggine, assieme alla moglie Maria Letizia Veronese, che chiudiamo (momentaneamente) la lettura di questa biografia magistralmente lineare volta ad inseguire l’irriducibile irripetibilità del genio. Battisti che nell’estate del 1993 incontra per caso al mercato di Lecco, Adriano Celentano e Claudia Mori. Due leggende che si danno la mano tra verze e san Marzano. Si mettono da qualche parte in un bar a chiacchierare assieme alle mogli per ore. Fino alle due del mattino. Poi rilanciano entrambi l’idea di fare qualcosa insieme. E attenzione: è Battisti a richiamare Celentano che però non è in casa. Poi il Molleggiato si dimentica di richiamarlo, vuoi per orgoglio o per reale dimenticanza. E quando lo fa, Battisti non si fa più trovare. Peccato perché Celentano aveva parlato con Mina e avevano già in mano il disco del secolo, tutti e tre insieme, che non è stato mai: H2O.

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