Quanti saranno i cittadini che domenica prossima parteciperanno alla scelta fra Stefano Bonaccini ed Elly Schlein? Difficile se non impossibile fare previsioni, ma è ragionevole affermare che la soglia degli 1,6 milioni raggiunta solo quattro anni fa sia un vero e proprio miraggio.

E’ pur vero che il contesto in cui furono celebrate le primarie del 2019 fu, per certi versi, simile a quello attuale: anche quattro anni fa il Pd veniva da un crollo elettorale sotto il 20%; per la prima volta dopo tanto tempo era finito all’opposizione; e fra i molti cittadini che parteciparono al voto c’era sicuramente un largo numero di delusi, fuggiti dal Pd dopo la tragica e destrorsa esperienza renziana, fiduciosi che il nuovo corso riuscisse a riportare il partito in un alveo culturale e politico più affine ai valori e alla storia della sinistra e del centrosinistra.

Sarà così anche questa volta? Oggi come allora il Pd esce da una esperienza totalmente fallimentare sul piano elettorale e caratterizzata da posizioni politiche – si pensi al sostegno al tecnocrate Draghi o all’appiattimento acritico sulle posizioni belliciste della Nato – che sarebbe quasi ridicolo definire di sinistra. E anche quest’anno le primarie sono state indette mentre in Parlamento i gruppi Pd sono relegati all’opposizione.

Se ci fermassimo a queste corrispondenze dovremmo concludere che domenica prossima il Pd ci potrebbe stupire riempendo i gazebo di cittadini-elettori. In realtà sembra corretto completare la riflessione segnalando una serie di differenze non secondarie rispetto al voto del 2019.

In primo luogo, c’è il grande fenomeno dell’astensionismo, già registrato lo scorso 25 settembre e deflagrato alle recenti Regionali. E’ difficile immaginare che cittadini che non hanno sentito il bisogno di contrastare l‘avanzata della destra nelle urne trovino il tempo e la voglia di recarsi ai gazebo domenica prossima. E perché dovrebbero farlo? Qualcuno ha forse sentito, dal 25 settembre ad oggi, una seria autocritica del Pd sulle cause e le ragioni della sconfitta? Del resto, non è mai stata aperta neanche una vera riflessione sul fallimento della stagione renzista e tantomeno sul sostegno acritico e quasi ideologico al draghismo.

Altro problema è quello delle correnti e dei tanti leaderini locali che sopravvivono a svolte, segretari, cambi di leadership, cambiando maschera a ogni giro per restare sempre e comunque al proprio posto e perdendo progressivamente il contatto con i territori. Fra i sei milioni di voti persi dal 2007 ad oggi ce ne sono tanti che sono fuggiti, nauseati da questa logica del “tutto cambi perché nulla cambi”. Anche in questa campagna congressuale abbiamo sentito tante dichiarazioni di impegno al ricambio della classe dirigente. Quanti saranno i cittadini elettori disposti nuovamente a credere a queste promesse? E quanti daranno definitivamente forfait?

Ma le vere novità riguardano lo scenario politico generale e la percezione del ruolo e della funzione che, al suo interno, potrà essere svolta da un partito come il Pd. Oggi, molto più che nel 2019, una parte considerevole dei potenziali elettori del centrosinistra è consapevole dell’assoluta inadeguatezza dei partiti nazionali per far fronte alla globalizzazione e alle sfide del mondo attuale. La pandemia, la guerra, il caro-energia e la recessione sono le vere priorità di questa fase politica e la loro dimensione sovranazionale non può che ridimensionare il peso e l’interesse per partiti e leader che, agli occhi di un numero sempre più vasto di cittadini-elettori, poco o nulla possono fare a fronte della complessità e della interdipendenza che originano questi problemi.

Da ultimo vorrei segnalare la questione che riguarda la leadership del futuro segretario. Nelle primarie del passato, con un sistema sostanzialmente bipolare, era quasi scontato che la scelta del capo-partito sarebbe coincisa con l’indicazione del candidato premier del centrosinistra. Le evoluzioni di questi ultimi anni hanno però determinato una polverizzazione delle rappresentanze, accentuando la conflittualità anche fra partiti negli stessi schieramenti. Ne consegue che l’elezione del nuovo segretario del Pd non determinerà in alcun modo l’individuazione del futuro candidato premier. E anche questo aspetto, non secondario, contribuirà molto probabilmente a ridurre l’interesse e la partecipazione al voto di domenica prossima.

E così, dopo aver sostanzialmente ignorato errori, ritardi e contraddizioni del passato, dopo aver del tutto sottovalutato le vere criticità del presente, il Pd si accinge ad eleggere un segretario a cui affiderà la definizione di un futuro che è ancora tutto da scrivere. Un po’ troppo poco per sperare che l’evento di domenica possa trasformarsi in un momento decisivo per le sorti dei progressisti e dello schieramento che dovrebbe costruire l’alternativa all’attuale maggioranza.

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