La Calabria, terra in cui vivo, è una regione, a detta di moltissimi non calabresi che la conoscono bene, bellissima. È terra “dolce ed amara” come la definiva Leonida Reapaci, di infiniti paradossi. Il luogo in cui “sorge il bello” (kalos bryon questo secondo molti studiosi l’etimo greco della parola Calabria), è stato sfregiato da costruzioni mai ultimate, la stragrande maggioranza di esse abusive, che rappresentano l’esatto contrario: degrado, bruttezza, superficialità, mancanza di qualsivoglia forma di senso civico. Il “non finito calabrese” è diventato un vero e proprio stile architettonico tipico consolidatosi ormai da una settantina di anni, tanto da diventare spunto letterario che fa discutere, filosofi, antropologi e sociologi.

Alessia Rubino, giovane calabrese laureatasi a Bologna ha discusso una tesi sul non finito calabrese. Lavoro supportato, tra l’altro, anche dal paziente e puntuale reportage fotografico di Angelo Maggio primo tra i fotografi etnografici calabresi ad aver immotalato quella sorta di assuefazione al degrado ed alla bruttezza mediante ciò che la stessa Rubino definisce “ordigni inesplosi” (le costruzioni non finite) che hanno modificato per sempre il volto di un territorio.

Posso attestare, dopo aver concluso il mio secondo mandato da referente regionale di Libera, di averla girata tutta la Calabria, in lungo ed in largo e sono davvero rari quei comuni che non ospitano tale tipo di costruzioni, presenti in particolare nella periferia di Reggio Calabria e nell’intera provincia dello stretto in modo davvero significativo. Spesso mi sono chiesto come ci si potesse abituare a questo scempio. Di come si potesse rimanere indifferenti dinanzi a tanta bellezza che pure è alla portata di tutti, basta saper alzare lo sguardo.

Ogni stile artistico o architettonico è figlio di una cultura o visione del mondo (weltanschauung come la definiscono gli antropologi). Da calabrese mi sforzo di comprendere cosa possa rappresentare, perché non può essere solo e soltanto scempio architettonico, mattoni senza intonaco, cemento armato con colonne dalle quali spuntano tondini di ferro arrugginiti che sembrano braccia rinsecchite che gridano aiuto verso il cielo.

Penso abbia ragione Luciana Marrazzo, quando in un suo articolo apparso su Il Sole24Ore del 22/09/2022, definisce il non finito calabrese come una vera e propria “liturgia per rimandare all’infinito la possibilità di abitare, senza mai attuarla”. In Calabria le liturgie ed i riti sono ormai consolidati da secoli. Basti pensare al rito dell’inchino dinanzi alla casa del boss di turno durante la processione della festa patronale. O ancor peggio, a quella sorta di “liturgia segreta” che è il rito di affiliazione alla ’ndrangheta.

Sono fortemente persuaso che sia anche la liturgia di un’assenza: di persone emigrate e mai più tornate; di progetti e di sogni mai realizzati, come quello di vedere le diverse generazioni abitare nella stessa casa su piani diversi per custodire la sacralità degli affetti. È anche la liturgia dell’assenza dello Stato, il primo è più famoso “latitante”. Rappresenta quell’infinita litania di promesse, mai mantenute di politici (spesso corrotti o collusi) come bene rappresenta il mitico Cettolaqualunque nel film Qualunquemente, che dinanzi al meraviglioso scenario dello Stretto, conclude il suo ultimo comizio con l’impegno solenne: “costruiremo un Paese di pilu e cemento armato. E se il ponte non dovesse bastare costruiremo anche il tunnel…”.

Credo, infine, sia anche la liturgia dell’assenza di una rinuncia alla sana ribellione contro ogni forma di ingiustizia e di rassegnazione. Gianrico Carofiglio nel suo volume La nuova manomissione della parole, ci ricorda che “la ribellione è responsabilità, autonomia, affrancamento. È rimedio contro la bruttezza, l’umiliazione, la perdita di dignità. La ribellione è la via per la bellezza”.

Il filosofo e scrittore Albert Camus, verso la fine del suo saggio L’uomo in rivolta annota: “la bellezza senza dubbio non fa rivoluzioni. Ma viene il giorno in cui la rivoluzione ha bisogno di lei. La sua norma, che nell’atto stesso di contestare il reale gli conferisce unità, è anche quella della rivolta (…) Mantenendo la bellezza, prepariamo quel giorno di rinascita un cui la civiltà metterà al centro delle sue riflessioni, lungi dai principi formali e dai valori sviliti della storia, quella virtù viva che fonda la comune dignità del mondo e dell’uomo, e che dobbiamo ora definire di fronte a un mondo che insulta”. Anche nei Taccuini, il pensatore d’oltralpe insiste molto sul valore della bellezza, perché “occorre servire l’uomo nella sua totalità o non lo si serve per nulla. E se l’uomo ha bisogno di pane e giustizia e se si deve fare quanto occorre per soddisfare questo bisogno, egli ha anche bisogno della bellezza pura che è il pane del suo cuore”.

Personalmente, anche alla luce di queste importanti considerazioni, auspico che le nuove generazioni di calabresi siamo affamati di bellezza, che si ribellino al degrado, allo squallore e alla rassegnazione.

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