di Elisa Bianco*

Questa settimana si terrà a Pordenone Aquafarm, la fiera su acquacoltura e industria della pesca più grande d’Italia. Durante i due giorni di incontri si parlerà anche del nuovo disciplinare di “Acquacoltura sostenibile” sviluppato dal ministero dell’Agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste, in collaborazione con le associazioni di settore. Un disciplinare importante anche per i consumatori perché permetterà di etichettare i prodotti in commercio con la dicitura “Acquacoltura sostenibile”, con l’obiettivo di “prestare maggiore attenzione al benessere animale”.

Purtroppo, però, il benessere dei pesci appare subito un elemento marginale della certificazione. Ad esempio, le densità di allevamento permesse mostrano valori troppo elevati: fino a 35 kg/m3 per le trote e 40 kg/m3 per orate e spigole. In pratica, pesce più o pesce meno, gli allevamenti di acquacoltura sostenibile possono accasare fino a 77 trote, 88 spigole e 100 orate in ogni metro cubo d’acqua. Il problema non è solo che ai pesci manca di fatto spazio per muoversi, ma anche l’aumento di trasmissione di malattie e la forte competizione per mangimi o altre risorse, che porta alla comparsa di comportamenti aggressivi tra animali costretti a vivere confinati in spazi angusti.

La lacuna più lampante è però un’altra: in antitesi con la direzione intrapresa da normative e certificazioni internazionali, il disciplinare italiano non prevede l’obbligo di garantire la perdita di coscienza immediata prima dell’abbattimento, costringendo di fatto i pesci a una lenta e silenziosa agonia. Dopo la raccolta con le reti, la grande maggioranza di spigole e orate allevate in Italia sono immerse in miscele di ghiaccio e acqua, dove, per lo shock termico, rimangono immobili – anche se possono trascorrere fino a 40 minuti prima che perdano coscienza.

Eppure, metodi di stordimento più in linea con standard di benessere animale riconosciuti a livello internazionale sono già disponibili e, secondo un report commissionato da Essere Animali, farvi ricorso inciderebbe in maniera contenuta sul prezzo di produzione. Per trote, orate e branzini si potrebbe garantire l’impiego di metodi di stordimento efficaci con un aumento complessivo dei costi di produzione di soli 6 centesimi al chilo. Sicuramente ci sarebbero da fare degli investimenti iniziali, ma quale modo migliore di spendere i 340 milioni di euro in arrivo all’acquacoltura italiana attraverso la politica comune della pesca, se non sostenere lo sviluppo di standard migliori? Soprattutto nell’ottica di voler apporre bollini di sostenibilità sui prodotti, come appunto sembra essere l’intenzione del ministero.

La Commissione europea ha riconosciuto ufficialmente che i pesci d’allevamento necessitano di maggiori tutele normative e che l’attuale regolamento che ne regola il fine vita deve essere aggiornato. Il fatto che queste indicazioni non trovino spazio nella visione italiana di “Acquacoltura sostenibile” lascia pensare che per i pesci la strada verso un miglioramento significativo del loro benessere sarà ancora molto lunga.

*responsabile corporate engagement di Essere Animali

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