La Commissione europea chiede conto all’Italia sulla norma anti-cinghiali approvata in manovra, che prevede la possibilità di abbatterli per motivi di sicurezza stradale anche in aree protette e in città. E Roma ha quattro settimane per rispondere all’esecutivo Ue e rischia una procedura di infrazione. La direzione generale ambiente della Commissione vuole chiarimenti sulla disposizione che consente a Regioni e Province Autonome di provvedere “al controllo delle specie di fauna selvatica anche nelle zone vietate alla caccia, comprese le aree protette e le aree urbane, anche nei giorni di silenzio venatorio e nei periodi di divieto” e di dotarsi di piani straordinari quinquennali “per la gestione e il contenimento della fauna selvatica”.

Nella lettera, che la Commissione europea ha scritto dopo “articoli di stampa e una petizione al Commissario” Ue all’ambiente Virginijus Sinkevicius, si chiedono garanzie sulla compatibilità della norma nazionale con le le Direttive Habitat e Uccelli. In particolare, l’Esecutivo Ue domanda in che modo la legge assicura che nelle Aree Natura 2000 “non si pratichi l’abbattimento e la cattura delle specie per le quali queste aree sono state designate”, e come sia salvaguardato il divieto di caccia degli uccelli e altri animali selvatici e i periodi di nidifcazione e di riproduzione. Ieri un gruppo di associazioni (Enpa, Lac, Lav, Legambiente, Lipu e Wwf Italia) hanno avvertito sul rischio di infrazione e hanno chiesto al governo di “cambiare rotta”. “La lettera della Commissione è una conferma di quanto abbiamo denunciato – hanno dichiarato le sei ong -. Questa norma si pone in aperto contrasto sia con le direttive europee, sia con la Costituzione italiana e rende concreto il rischio di attivazione di una procedura di infrazione che peserà sulle tasche di tutti gli italiani. La portata di questa lettera va oltre l’ormai famoso emendamento “caccia selvaggia” e coinvolge l’intero approccio filo venatorio del Governo e di molte Regioni che porta ogni anno all’approvazione di calendari venatori che dopo essere impugnati dalle associazioni ambientaliste vengono puntualmente dichiarati illegittimi dai giudici amministrativi per violazione dei principi di tutela ambientale. È giunto il momento che la politica cambi radicalmente rotta, si occupi della tutela costituzionale dei beni comuni e non continui a farsi dettare l’agenda dai cacciatori e degli armieri”.

La norma Il testo, a prima firma del capogruppo di FdI a Montecitorio Tommaso Foti, smantella uno dei capisaldi della legge sulla protezione della fauna selvatica, dando il via a una totale deregulation dei piani regionali di abbattimento di animali: dal 2023, infatti, si potrà sparare agli animali addirittura “nelle aree protette e nelle aree urbane, anche nei giorni di silenzio venatorio e nei periodi di divieto”. Basterà che le Regioni autorizzino “piani di controllo numerico” della fauna mediante abbattimento o cattura. Per farlo non servirà nemmeno più il nullaosta dell’Ispra, l’ente pubblico per la tutela ambientale, che fino adesso doveva “verificare l’inefficacia” di metodi alternativi: alle giunte basterà “sentirlo“. E da chi saranno realizzati i piani di abbattimento? Non più “dalle guardie venatorie dipendenti dalle amministrazioni provinciali”, ma direttamente “dai cacciatori (…), previa frequenza di corsi di formazione autorizzati dagli organi competenti e (…) coordinati dagli agenti delle Polizie provinciali e/o regionali”. Dulcis in fundo, si prevede che gli animali abbattuti siano “sottoposti all’analisi igienico-sanitaria” per poi essere “destinati al consumo alimentare“.

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