In una manovra già striminzita, per la sanità vessata da due anni di pandemia sono rimaste solo le briciole. E i medici si preparano a scendere in piazza, se il governo Meloni non dovesse intervenire per porre rimedio. La bozza della legge di bilancio prevede infatti per il 2023 solamente due miliardi in più da destinare al fabbisogno sanitario standard, ma 1,4 miliardi sono destinati a far fronte al caro bollette. A questi si aggiungono i due miliardi già previsti dalla precedente manovra di Draghi. Il governo Meloni quindi per i medici stanzia di fatto appena 600 milioni di euro. Fondi ritenuti insufficienti da sindacati, ordini dei medici, esperti e anche dalle Regioni. In particolare per un motivo. L’aumento dell’inflazione si mangerà tutto l’incremento, portando nella pratica a un taglio dei soldi destinati alla sanità. Con meno soldi, non resta nulla per il personale medico e infermieristico. “Alla sanità del 2023 vengono destinate certo più risorse, ma per bollette e vaccini e farmaci anti Covid, non per servizi e personale. Niente per il Contratto di lavoro 2019-2021, che prevede incrementi pari a un terzo del tasso inflattivo attuale, e nessun finanziamento per quello 2022-2024″, denunciano le organizzazioni sindacali dei medici, veterinari e dirigenti sanitari. Così, è l’allarme rilanciato anche da Filippo Anelli, presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei medici (Fnomceo), ci sarà una fuga dagli ospedali: “Si rischia l’emorragia di molti medici che andranno via dal Ssn attratti dal prepensionamento, dalle offerte dall’estero e dal privato“. Un rischio enorme, perché la sanità italiana già soffre una carenza di personale e perché la riforma da 7,1 miliardi prevista dal Pnrr avrà bisogno di un aumento del numero di medici, infermieri e operatori sanitari. Altrimenti, resterà una scatola vuota.

Nel dettaglio, la bozza della prima manovra del governo Meloni prevede due miliardi in più nel 2023 e altrettanti nel 2024 per finanziare la sanità. Per il prossimo anno 1,4 miliardi sono destinati a fare fronte ai maggiori costi determinati dall’aumento dei prezzi delle fonti energetiche. Vengono poi stanziati 650 milioni, sempre nel 2023, da destinare all’acquisto dei vaccini e dei farmaci anti-Covid. Ma un altro aspetto fortemente criticato riguarda i fondi che l’esecutivo di centrodestra ha previsto per i lavoratori dei pronto soccorso, la categoria forse più colpita dal Covid. Il governo Meloni infatti ha stanziato 200 milioni in più per le indennità di pronto soccorso, ma solamente a partire dal 2024. Zero per il prossimo anno. Un’altra scelta che i sindacati interpretano come un affronto. Per questo Anaao assomedcimo-fesmed – aaroi-emac – fassid – fp cgil medici e dirigenti ssn – fvm federazione veterinari e medici – uil fpl – Cisl medici – esprimono preoccupazione e aggiungono: “Le condizioni di lavoro dei dirigenti medici, veterinari e sanitari, divenute insopportabili, anche a causa di una pandemia non ancora superata, alimentano uno stato di crisi della sanità pubblica che ha ridotto il Ssn a malato terminale“.

“Le fughe di massa dei professionisti, insieme con l’insoddisfazione e lo scontento di chi non fugge – dicono i sindacati – suonano un allarme che, però, non arriva alle orecchie del ministro della Salute e del governo che non vedono organici drammaticamente ridotti al lumicino al punto da mettere a rischio l’accesso dei cittadini alla prevenzione e alle cure, insieme con la loro qualità e sicurezza”. “Servono – rincarano i sindacati – investimenti per le retribuzioni e per le assunzioni, perchè la carenza di specialisti non può essere colmata dalle cooperative dei medici a gettone, pagati per lo stesso lavoro il triplo dei dipendenti e gratificati di una flat tax che porta a livelli intollerabili anche il differenziale contributivo”. I dirigenti medici, veterinari e sanitari del Ssn, in mancanza di segnali immediati e concreti, annunciano dunque lo stato di agitazione e ” tutte le iniziative necessarie per difendere e tutelare la sanità pubblica e il lavoro del suo capitale umano”. Anche Anelli (Fnomceo) denuncia appunto che il rischio che i medici “abbandonino in massa il Servizio sanitario nazionale”. Il presidente della Federazione degli Ordini dei medici chiede che almeno 2 miliardi siano “utilizzati interamente per aumentare gli stipendi dei medici e sanitari”. “Chiediamo quindi un impegno da parte del governo a vincolare interamente tali risorse per il personale sanitario”, aggiunge Anelli. La situazione, avverte, è infatti “d’emergenza: la professione medica, soprattutto per i medici dei Pronto soccorso e per i medici di medicina generale, sta diventando sempre meno attrattiva. Questo sta spingendo tantissimi medici ad abbandonare il Sistema sanitario nazionale. Quindi, o si interviene con misure straordinarie o vedremo un esodo irrefrenabile“.

E anche le Regioni denunciano come i fondi stanziati siano insufficienti. I due miliardi in più annunciati dalla premier Meloni per la sanità “assolutamente non bastano“, avverte il presidente delle Regione Puglia Michele Emiliano, “perché ogni anno, per il semplice fatto che i costi aumentano, 2 miliardi in più servono a temere la sanità allo stesso livello dell’anno precedente, ma visto che quest’anno c’è un’inflazione molto alta e sono aumentati molto i costi dell’energia, sostanzialmente c’è una diminuzione del finanziamento effettivo del sistema sanitario italiano e questa cosa è bene che il governo la dica con chiarezza“. “Non si può dire aumentiamo di 2 miliardi, perché l’aumento è inferiore al differenziale inflativo che si sta creando”, ha affermato Emiliano a margine della Conferenza delle Regioni. Ed è un concetto che i governatori condividono al di là dell’appartenenza politica, come dimostra il testo che il presidente della Conferenza delle Regioni, il leghista friulano Massimiliano Fedriga, aveva inviato al ministero della Salute prima della legge di bilancio: “Tra caro energia, super-inflazione e spese per il Covid, nella sanità si è aperto un buco da 3,4 miliardi di euro“, si legge nella missiva sottoscritta appunto da tutti i presidenti, di centrosinistra e anche di centrodestra. I soldi stanziata dal governo Meloni quindi non basteranno. E in queste condizioni, avvertivano sempre le Regioni, “diventa difficile assicurare le migliori cure a tutti, ridurre le liste di attesa e assumere i sanitari che servono a far sì che le nuove Case e Ospedali di comunità nel territorio non restino scatole vuote“.

Contro i mancanti investimenti per la salute protesta pure il mondo della scienza e della ricerca. “La sanità pubblica continua a rimanere fuori dalle priorità del Paese nonostante le enormi criticità esplose con la pandemia”, sottolinea Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe. In Italia, rileva Cartabellotta, “la pesa sanitaria pubblica è sotto di 12,7 miliardi di euro rispetto alla media europea, ma oltre alle risorse servono visione di sistema e coraggiose riforme”. Secondo il presidente Gimbe, le criticità compromettono sempre più il diritto costituzionale alla tutela della salute, “determinando rinunce alle cure e inaccettabili diseguaglianze, non solo regionali, nell’accesso alle prestazioni e alle innovazioni”. Secondo Cartabellotta, senza un drastico cambio di rotto a un adeguato livello di risorse, il sistema sanitario nazionale “è condannato a una stentata sopravvivenza che finirà per sgretolare, lentamente ma inesorabilmente, il modello di una sanità pubblica, equa e universalistica, pilastro della nostra democrazia”. All’Adnkronos Salute Maria Rita Gismondo, direttrice del Laboratorio di microbiologia clinica, virologia e diagnostica delle bioemergenze dell’Ospedale Sacco di Milano, chiede una retromarcia perché altrimenti “non sarà fattibile una gestione serena del Servizio sanitario nazionale”.

In una lettera aperta indirizzata al nuovo governo all’indomani delle elezioni politiche, Gismondo aveva stilato una “lista dei desideri” auspicando, tra le altre cose, un investimento sul futuro del Paese. E nel futuro prossimo c’è la gigantesca riforma della sanità italiana, uno dei punti principali del Pnrr, che dovrà entrare pienamente a regime nel 2026 e che vale 7,1 miliardi di euro. La riforma punta a rinnovare la sanità territoriale, con l’introduzione dei distretti sanitari e delle case di comunità che avranno il compito di ridurre gli accessi impropri al pronto soccorso e si sollevare gli ospedali dall’onere di curare tutti i malati, anche quelli che non necessitano dalla sorveglianza di un medico. Il Covid ha messo a nudo tutta la fragilità del filtro che dovrebbero svolgere i medici di base e più in generale le mancanze dell’assistenza territoriale. Per rafforzarla, grazie ai fondi del Pnrr nasceranno appunto nuove strutture, più piccole ma maggiormente capillari, per accogliere i cittadini in cerca di prime cure. Ma, come le stesse Regioni avevano denunciato nei mesi scorsi, per far funzionare la riforma serviranno altri medici, altri infermieri e altri operatori sanitari. Se già vengono ridotte le risorse, un futuro di nuove assunzioni diventa un miraggio. Con il rischio che l’opportunità che si è presentata con il Pnrr si trasformi in un boomerang per la sanità italiana.

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