In ballo ci sono più di 7 miliardi di euro e una sfida che, oltre 800 giorni dopo il primo caso di Covid in Italia, dimostra di essere decisiva per la tenuta del sistema sanitario nazionale. L’assistenza territoriale fu il primo argine a crollare durante la pandemia, incapace di reggere la pressione non solo nella primavera 2020 ma anche nelle seguenti ondate del virus. Il filtro dei medici di base è sempre più fragile, a prescindere dal Covid, come dimostrano i dati sui pensionamenti. Inoltre, i pronto soccorso vivono una perenne emergenza, fotografata dai diversi episodi emersi di recente, di cui l’ospedale Cardarelli di Napoli ha rappresentato solo l’apice. In assenza della presa in carico dei malati sul territorio, le persone si riversano negli ospedali in cerca di una diagnosi e di una cura. Per risolvere questo problema, il 21 aprile scorso il Consiglio dei ministri ha dato il primo via libera al cosiddetto Dm 71, il decreto del ministero della Salute sui “Modelli e standard per lo sviluppo dell’assistenza territoriale nel Servizio sanitario nazionale”. Una gigantesca riforma della sanità italiana, uno dei punti principali del Pnrr, che dovrà entrare pienamente a regime nel 2026, ma che deve essere adottata entro il prossimo 30 giugno, per non perdere i fondi europei. Da qui la decisione del governo Draghi di procedere nonostante manchi l’intesa con le Regioni, gli enti deputati a mettere in pratica la riforma stessa. Una forzatura su una questione chiave del Piano nazionale di ripresa e resilienza, come emerge appunto dalla situazione drammatica dei pronto soccorso italiani. Entro la prossima settimana è prevista la firma tra Regioni e Ministero di un contratto di sviluppo, mentre il decreto ministeriale già trasmesso per la pubblicazione in Gazzetta, sarà sottoposto alla registrazione della Corte dei Conti.

Nonostante fondi europei per 7,1 miliardi, il nodo restano sempre le risorse. Quelle per il personale, che già oggi è carente, su cui le Regioni hanno chiesto al governo un impegno. Per questo è arrivato il no della Campania che ha fatto saltare l’intesa. “Questi 7,1 miliardi sono solo in conto capitale per investimenti, quindi si possono comprare muri, macchine, tecnologie, consulenze, ma non si può assumere nessuno. Non si possono usare i soldi del Pnrr per il personale”, sottolinea il professor Francesco Longo, direttore di OASI, l’Osservatorio sul settore e le aziende sanitarie della School of Management dell’Università Bocconi. Nonostante i fondi del Piano di ripresa e resilienza, quindi, resta il tema della carenza di risorse: “L’Italia ha un finanziamento per abitante che è l’80% meno dei tedeschi e il 50% meno dei francesi. La nostra è una sanità sobria”, spiega Longo. Che però aggiunge: “In sanità le risorse non bastano mai, il problema è che siamo un Paese di vecchi, con pochi lavoratori. Non c’è base imponibile e c’è tanto bisogno”. In pratica, trovare i soldi sarà sempre più difficile perché con il passare degli anni “la distanza tra i bisogni e la base imponibile continuerà ad aumentare”. Allo stesso modo, sarà sempre più difficile trovare medici: “Non si trova un medico o un infermiere così come non si trova un elettricista o un ingegnere. Il nostro deserto demografico ha iniziato a mordere”.

L’USO IMPROPRIO DEI PRONTO SOCCORSO
Oggi chi lavora nei pronto soccorso cerca di fuggire: le richieste di dimissioni dei camici bianchi si moltiplicano, da Bologna a Torino, da Firenze a Roma. Non riguardano solo il Cardarelli di Napoli. Secondo i dati di Anaao Assomed, il sindacato dei medici dipendenti del Servizio sanitario nazionale, nei pronto soccorso mancano all’appello circa 4.500 medici. Senza possibilità di un ricambio: tra turni logoranti e remunerazioni poco attrattive, i concorsi per i contratti (a tempo determinato) vanno deserti. In totale, stima il sindacato, tra pensionamenti e dimissioni entro il 2024 ci saranno 40mila medici specialisti in meno. La grande sofferenza degli ospedali e le carenze della sanità territoriale sono due problemi che procedono a braccetto: “Nei pronto soccorso italiani abbiamo tra il 60 e l’80% di accessi impropri, i cosiddetti ‘codici bianchi’ che non dovrebbero andare al Ps”, spiega il professor Longo. Quindi, spiega, “la soluzione di assumere più medici è una soluzione che ha senso solo se si confermano volumi di attività inappropriati. Mentre l’obiettivo del Pnrr e del Dm 71 è esattamente l’opposto: rafforzare i servizi di prossimità per ridurre di molto l’accesso improprio al pronto soccorso. A quel punto il tema della carenza di medici sarebbe meno grave”.

LE CASE DI COMUNITÀ: FULCRO DEL DM 71
Le case di comunità sono il perno della riforma messa in piedi dal ministro Roberto Speranza. Il Dm 71 prevede infatti la nascita di un distretto sanitario ogni 100mila abitanti. All’interno di questi distretti, la casa di comunità svolge il ruolo principale: è il luogo dove i cittadini potranno trovare assistenza 24 ore su 24. “Sul lato ospedaliero – prosegue il ragionamento di Longo – abbiamo bisogno di concentrare la casistica in meno ospedali più specializzati“. In sanità, spiega il direttore di OASI, esiste una regola d’oro per i pazienti: “Più alta è la casistica dei medici, migliori sono gli esiti di salute”. Un esempio: “Un punto nascita con meno di 500 parti all’anno è un posto pericoloso”. Per avere una maggiore concentrazione della casistica specialistica, spiega Longo, “serve uno sviluppo dei servizi territoriali capillari e domiciliari”. In questa chiave, la riforma prevista dal Dm 71 “fa pendant perfetto a questo tentativo di concentrazione ospedaliera. Più qualità in ospedale attraverso una maggiore concentrazione e più qualità sul territorio attraverso una maggiore capillarità”.

Gli standard fissati dal governo prevedono almeno una casa di comunità hub ogni 40mila-50mila abitanti, al quale affiancare le case di comunità spoke e i normali ambulatori dei medici di famiglia. Lo scopo è far sì che i cittadini abbiano una struttura di riferimento a cui rivolgersi e che garantisca una continuità assistenziale, lasciando al pronto soccorso solo le vere emergenze. “Le case di comunità sono il fulcro della riforma, ma dobbiamo metterci d’accordo se devono essere l’Esselunga o Amazon“, spiega Longo. Ovvero: “Saranno più un luogo dove il paziente va fisicamente e riceve delle prestazioni in maniera tradizionale, oppure lavoreranno prevalentemente in remoto, aiutando il cittadino a ottenere i giusti servizi”. In ogni caso, saranno il luogo a cui rivolgersi per esigenze da ‘codice bianco’, come un insistente mal di stomaco: “Un domani si potrà fare una call online per ottenere la prescrizione di un farmaco oppure si potrà andare in una casa di comunità. Sarà una delle due soluzioni”, evidenzia il professor Longo.

LA CARENZA DI MEDICI DI BASE
L’attività all’interno delle case di comunità viene svolta da “Medici di Medicina Generale, Pediatri di Libera Scelta, Specialisti Ambulatoriali Interni – anche nelle loro forme organizzative – Infermieri di Famiglia o Comunità, altri professionisti della salute”, come psicologi, ostetrici e assistenti sociali. Con i medici di famiglia costretti a sdoppiarsi: oltre alle ore di lavoro nei loro studi, devono garantire almeno 6 ore settimanali nelle case di comunità. Già oggi, però, i medici di base sono sempre di meno: in Lombardia ne mancano oltre 1.600, in Veneto altri 600. Il problema è nazionale ed è destinato a peggiorare: si prevede che solo nei prossimi due anni andrà in pensione circa il 30% dei medici di base. “In generale c’è una carenza di giovani, la sanità è colpita come tutti gli altri settori”, commenta Longo. Che sottolinea un altro aspetto: “Nel resto d’Europa è da anni che mancano medici e infermieri. Dobbiamo porci dei problemi strutturali: o andiamo verso modelli di servizio che valorizzano di più alcune professioni (come quelle sanitarie) o andiamo verso modelli di servizio in cui aumentiamo l’uso delle tecnologie o andiamo alla caccia di nuovi medici all’estero. Negli Usa, in Germania, in Inghilterra, ormai hanno circa il 20% di medici stranieri”. L’aspetto chiave quindi è arrivare a un intervento strutturale: “Ci può essere una qualche soluzione tampone di breve periodo, ma in realtà la nostra situazione ci pone delle questioni più di lungo periodo”, spiega il professore.

Secondo il direttore di Oasi, inoltre, un altro punto ci differenzia degli altri Paesi Ue: “All’estero tutta una serie di funzioni vengono svolte da infermieri, ovviamente più qualificati. L’Italia inoltre ha degli standard di servizio con presenza di medici che altrove sono stati abbandonati da tempo”. Se i camici bianchi mancano, e continueranno a mancare, “altri Paesi hanno fatto delle scelte di priorità“. In questo senso, a suo avviso, il Dm 71 “spinge in una direzione: far fare ai medici meno cose più qualificate e far fare alcune funzioni alle professioni sanitarie, perché è più facile formare un infermiere che un medico”. Lo standard fissato dal ministero prevede nelle case di comunità la presenza di 7-11 infermieri e 5-8 unità di personale di supporto sociosanitario e amministrativo. “Tutti i nuovi setting assistenziali – evidenzia Longo – sono a coordinamento esclusivo infermieristico”. Pure sul fronte delle professioni sanitarie, però, ci sono lacune da colmare: “Abbiamo una terribile carenza di infermieri, quindi dovremo formarne molti di più”.

I distretti sanitari introdotti con la riforma prevedono poi altre figure di riferimento. Ad esempio l’Infermiere di Famiglia e Comunità, che “assicura l’assistenza infermieristica ai diversi livelli di complessità in collaborazione con tutti i professionisti presenti nella comunità”. Lo standard è di un infermiere ogni 3mila abitanti. Restano anche le Usca (Unità di Continuità Assistenziale) per le visite a domicilio, già introdotte durante la pandemia (almeno un medico e un infermiere ogni 100mila abitanti). Il modello prevede inoltre una centrale operativa territoriale per coordinare la presa in carico dei cittadini e l’utilizzo del numero europeo 116117 per offrire un servizio telefonico di assistenza h24. Per evitare “ricoveri ospedalieri impropri” e “favorire dimissioni protette in luoghi più idonei” è prevista anche la nascita dell’ospedale di comunità, una struttura sanitaria di ricovero breve che deve appunto svolgere “una funzione intermedia tra il domicilio e il ricovero ospedaliero”. Lo standard fissato nel decreto è di almeno un ospedale di comunità dotato di 20 posti letto ogni 100mila abitanti.

I TIMORI DELLE REGIONI SULLE RISORSE
“L’entrata in vigore del provvedimento costituisce una tappa necessaria, secondo quanto previsto dalla programmazione comunitaria, da raggiungere entro il 30 giugno 2022“: è la prima motivazione addotta dal Consiglio dei ministri per giustificare il via libera al Dm 71 anche in assenza di un accordo in Conferenza Stato-Regioni. Il governo infatti deve avere tutto pronto entro fine giugno, compresa l’approvazione di un contratto istituzionale di sviluppo sulle case di comunità. Se non viene rispettato il cronoprogramma presentato a Bruxelles, addio ai fondi. Il governo e le Regioni però in due mesi non sono riusciti a trovare un accordo: a bloccare l’intesa è stato in particolare il tema della mancanza di risorse aggiuntive per il personale previsto dai nuovi standard del territorio. “Il Governo vuole darci ottocento milioni di euro di fondi europei per realizzare 170 case di comunità e colmare un gap rilevante e storico per la medicina territoriale, ma non ci dice dove prenderanno i fondi per il personale e per i costi connessi“, protestava il 19 aprile scorso il governatore Vincenzo De Luca. Come nell’emergenza odierna, anche nel progettare il futuro torna il problema del personale.

“Il tema delle risorse per il personale è importante, ma bisogna mettersi d’accordo: il Dm 71 è un documento di programmazione o un documento di indirizzo?”, ragiona il professor Longo. Con il decreto ministeriale vengono posti “nuovi standard di medio-lungo periodo, perché è la direzione verso la quale dobbiamo andare“. Il direttore di OASI aggiunge: “Sappiamo che oggi non ci sono le risorse, ma viene tracciata la strada per decidere dove devono andare le future risorse aggiuntive. Sul territorio, sul personale del territorio e non in ospedale”. Resta un fatto: su una riforma cruciale per il futuro della sanità italiana, governo e Regioni non sono riusciti a procedere in armonia. Longo però sottolinea anche un altro aspetto: “Tutte le Regioni sono d’accordo con la visione del Dm 71. Anche perché in sostanza significa unire i modelli Veneto ed Emilia-Romagna, quindi è una soluzione molto bipartisan anche da un punto di vista politico”. “Proprio perché condividono la riforma invocano più soldi e più personale – conclude il professore – e visto che tutte le risorse auspicate non ci sono, le richieste sono legittime e comprensibili”.

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