Cinema

Black Panther: Wakanda Forever ha lo spessore espressivo di un microchip per smartphone

L’ideologia commerciale dell’evento moltiplicata all’infinito è l’unica zattera a cui una favoletta ipermoderna, banale e sciapa, come il film del Marvel Cinematic Universe può aggrapparsi

di Davide Turrini

A forza di allungare le “fasi” del Marvel Cinematic Universe (MCU) lo spessore valoriale dei film prodotti nelle varie “fasi” si riduce ogni volta drasticamente. Anni fa sulla rivista Cineforum il critico Pier Maria Bocchi scrisse che ne Le Fate ignoranti Stefano Accorsi aveva lo spessore di “una schiacciatina”. Ora, mutatis mutandis, Black Panther: Wakanda Forever di Ryan Coogler ha lo spessore espressivo di un microchip per smartphone. L’ideologia commerciale dell’evento moltiplicata all’infinito è l’unica zattera a cui una favoletta ipermoderna, banale e sciapa, come il film di Coogler può aggrapparsi. Tra l’altro, prima che ci dimentichiamo, anni addietro si diceva che il digitale con la MCU avrebbe fatto passi da gigante. Ecco, com’è che fa quel comico? “Ma dove”? “Ma quando”? Wakanda forever propone del resto una imbarazzante illuminazione da gabinetto da monolocale che nemmeno la Sky City in Flash Gordon di Mike Hodges (ma almeno lì l’idea di pigiare sul kitsch c’era). Una fotografia così smaccatamente povera, così artificiosamente piatta che tridimensionalità degli spazi e profondità di campo (farlocco) paiono un ricordo perfino per i fondali western di serie B. Basterebbe soffermarci nell’imbarazzante inquadratura più volte riproposta (spoiler alert…) della morte della regina Ramonda (Angela Bassett). Una specie di pataracchio fotografico con la protagonista riaffiorante a galla con un lembo di schiena (la gobba?) in una piscina solarium con vetrate da chalet di montagna. Pathos… chi? Ethos? Ma per piacere. Mancherebbe il logos. Infatti manca.

Archiviato con un funerale, per forza di cose, la presenza fisica di re T’Challa (Chadwick Boseman è morto giovanissimo di cancro nella realtà), con mezza Wakanda alla ricerca dell’ “l’erba a forma di cuore” che potrà creare una nuova imbattibile black panther, ecco che sbucano pure dei cloni di Avatar. Quando la giovane erede al trono Shuri (Letitia Wright) si trova negli Stati Uniti e sta accompagnando Riri (Dominque Thorne), una giovanissima scienziata a Wakanda, ecco che dall’acqua sbucano su un ponte alcuni potentissimi guerrieri azzurrognoli che parlano come i maya di Apocalypto, fanno strage di sbirri e dopo uno scontro fisico impari rapiscono le due ragazze. Ora, chi nel 2009 ha visto Avatar o anche solo prima che Wakanda Forever iniziasse ha visto il trailer di Avatar: La via dell’acqua che uscirà a dicembre 2022, sobbalza sulla poltroncina. Ma che ci fanno i Na’vi di James Cameron nel film di Ryan Coogler? C’è una qualche partnership tra i due franchise? Macchè. Alla MCU si fa quello che si vuole, tanto è tutto “bellissimo” e “originale” a priori. Compresa la trasformazione di Namur, re del regno sottomarino di Talocan, quello composto dagli omini azzurrognoli alla Avatar, da una specie di nerboruto Aquaman come nei fumetti originari a povero torvo orfanello messicano oppresso dai cattivi colonialisti di un secolo fa ora però, grazie alla magia ancestrale di mamma cresciuto con pettorali alla Hulk, ali ai piedi, forza sovrumana e apnea da record.

Black Panther: Wakanda Forever non va molto oltre questo lungo simil prologo (spiegare è umano, sbrodolare è diabolico) perché s’incarta subito nell’innesco delle ragioni del conflitto. Ad ogni corso di drammaturgia spiegano che per questo passaggio cruciale nella costruzione del testo bisogna essere chiari, precisi, asciutti, poi magari si aggiunge qualcosa. Coogler e lo sceneggiatore Joe Robert Coole, invece, fanno il contrario: sovrappongono subito strati di sottotrame (il ritorno in servizio di Nakia (Lupita Nyong’o); il casus belli con sparo che innesca non si sa bene perché l’ira di Namur; la “siaiei” (CIA) che appare e scompare, ecc…), abbozzano il sottotesto politico (pietà, vi prego, basta parlare di postcolonialismo attraverso Black Panther, pietà), di genere (la coppia di guerriere lesbiche, sic), pure quello culturale (ancestralità tribali contro tecnologia modernista) per dirci cosa? Fondamentalmente nulla di significativo. Meglio una bella battaglia per distrarci un po’. E qui tocchiamo il fondo. Vivificare terreni e spianate di guerra dopo Il signore degli anelli di Peter Jackson e lo stesso finale MCU di Eternals è francamente complesso. Ma state certi che in Wakanda Forever lo sforzo di rimanerci lontanissimi è stato pure minimo. Tanto che la resa dei conti (spiace, ma qui, a dietrologia, preferiamo l’efficacia delle botte di Spencer &Hill in un salone delle feste) avviene su una navona da mare Wakanda improbabile dove si trincerano guerriere e guerrieri che come veri polli si fanno infilzare dai forzuti omoni azzurrognoli di Namur che salgono dagli abissi. Del resto l’espediente per sconfiggere il vendicativo villain era sbucata dal nulla come un iperbolico “gosh” alla Robin da parte del duo Shuri e Riri. Black Panther: Wakanda forever si chiude anche con una specie di sol dell’avvenire tra popoli (sfruttati? insomma), ma il caos narrativo amabilmente consumistico permane e rifulge sul come siamo caduti in basso dopo tonnellate di Marvel al cinema.

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