Hillary Diane Rodham Clinton, che oggi compie 75 anni – nacque a Chicago il 26 ottobre 1947 – è la donna che è andata più vicino a rompere il soffitto di cristallo della presidenza degli Stati Uniti; e non c’è riuscita perché, a due riprese, le americane progressiste e femministe non la sostennero: Hillary, ai loro occhi, è un mix di potere ed establishment e opportunismo familiare.

Nel 2008, venne sconfitta nelle primarie democratiche, dove partiva favoritissima, dall’uomo nuovo, e nero, di quella campagna, Barack Obama, che sarebbe diventato il 44esimo presidente degli Stati Uniti (il primo nero). Chi l’avrebbe mai detto che l’Unione avrebbe mandato un nero alla Casa Bianca prima di una donna? Io avrei scommesso il contrario, se non altro perché i neri sono un decimo della popolazione e le donne più della metà.

Se anche avesse ottenuto la nomination nel 2008, Hillary avrebbe probabilmente perso le elezioni, nonostante avesse a suo favore la legge dell’alternanza dopo otto anni di presidenza repubblicana: George W. Bush usciva di scena come un cane bastonato, tra le rivelazioni sulle menzogne dietro l’invasione dell’Iraq e il tracollo dell’economia. Contro, avrebbe avuto un candidato repubblicano, John McCain, un eroe di guerra, capace di contenderle il consenso dei moderati, mentre la sinistra avrebbe nicchiato, considerandola l’archetipo della conservazione, un Gattopardo d’America, cambiare tutto per non cambiare nulla.

Nel 2016, dopo otto anni di presidenza Obama, ottenne la nomination: la strada alla Casa Bianca pareva spianata, nonostante quella storia dell’alternativa, perché la nomination repubblicana era andata a un candidato improponibile, che doveva essere soprattutto indigesto alle donne, col suo ‘machismo’ volgare ed esplicito. Invece Donald Trump la batté, pur prendendo tre milioni di voti in meno di lei, perché ancora una volta le americane progressiste non si turarono il naso (e dire che stavolta ne avevano motivo) e non andarono a votare per lei, forse nella convinzione – sbagliata! – che avrebbe vinto lo stesso. Ma “not in my name”, avrebbero potuto dire l’attrice Susan Sarandon e quelle che come lei scelsero di astenersi.

Il percorso personale e la carriera politica dell’avvocato Rodham Clinton s’intrecciano strettamente: militante democratica e docente universitaria, moglie dal 1975 di un brillante e un po’ farfallone uomo politico che aveva l’ambizione di diventare governatore dell’Arkansas – ci sarebbe riuscito nel 1978 -, madre di Chelsea che fu teenager alla Casa Bianca e che è oggi donna d’affari, moglie e mamma, first lady e ‘zar’ della sanità per un breve periodo, prima che i suoi progetti deragliassero.

Concluso il doppio mandato presidenziale del marito, sopravvissuto a un ‘quasi impeachment’ per l’affare Monika Lewinsky, Hillary entrò nella scena politica in prima persona: del resto, la testa d’uovo della coppia era sempre stata lei, anche se Bill aveva dalla sua l’empatia che a lei manca (quasi) totalmente.

Il primo passo se lo scelse facile: un seggio di senatore dello Stato di New York, quasi una sinecura democratica – infatti, batté il suo avversario Rick Lazio con oltre il 55% dei suffragi. Era l’epoca in cui abitava a Washington quasi di fronte all’Ambasciata d’Italia, dove era spesso ospite a eventi e incontri. Quando l’allora premier Silvio Berlusconi venne in visita a Washington nel 2006, lei fu uno dei non molti senatori presenti al suo discorso davanti al Congresso riunito in seduta congiunta: “Mi sono commossa – disse al cronista dell’Ansa che l’avvicinò – quando il presidente Berlusconi ha reso omaggio ai giovani americani caduti in Italia, perché mi sono sentita familiarmente coinvolta: il padre di mio marito fu ferito nella campagna d’Italia”.

Al Senato, fece un mandato e un pezzo: rieletta nel 2006, era già in campagna per la nomination 2008. Missione fallita, come abbiamo già detto. Ma la correttezza con cui i Clinton, che avevano una forte influenza sul Partito democratico, accettarono il verdetto delle primarie e sostennero Obama contro McCain le aprì la strada verso un posto di rilievo nell’Amministrazione: fu segretario di Stato dal 2009 al 2013, gestendo, non senza strascichi polemici, le Primavere arabe, l’intervento in Libia e le avvisaglie della guerra in Siria. Quanto accaduto a Bengasi, dove l’11 settembre 2012 l’incaricato d’affari e tre marines furono uccisi, vittime di un’imboscata, è un’ombra sul suo operato, molto più che il polverone sollevato nella campagna 2020 per l’uso, improprio, ma non certo criminale, di una mail personale per trattare affari riservati.

Dopo la rielezione di Obama, ne lasciò la squadra: doveva prepararsi alla prossima campagna, quella in cui si vedeva proiettata verso la Casa Bianca. Andò a scuola di empatia, cercò di mostrarsi più vicina al ceto medio e alle minoranze, che erano i suoi potenziali elettori. Ma la sinistra non l’accettò mai, tant’è vero che le primarie, che sulla carta dovevano essere una passeggiata, divennero un match serrato con il senatore indipendente Bernie Sanders, bandiera ‘liberal’ e progressista, addirittura un socialista.

Oggi che compie 75 anni, Hillary, nonna di tre nipotini, rettrice della Queen’s University di Belfast, non nutre più speranze di un ritorno: la prima donna alla Casa Bianca non sarà lei e non è neppure detto che sia una democratica. La Gran Bretagna, la Germania, anche l’Italia, mostrano che chi sfonda il soffitto di cristallo è una donna di destra o, almeno, conservatrice.

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