“Negli Stati Uniti se vuoi metterti in gioco come produttrice indipendente non servono grandi capitali in partenza per avviare un progetto cinematografico. In Italia senza un capitale pre-esistente, escluso il budget del film, non si possono neanche chiedere fondi pubblici. E questo scoraggia molti giovani a rischiare”. Federica Belletti, 31enne originaria della provincia Fermo, a New York lavora come produttrice cinematografica. Ilfattoquotidiano.it aveva raccontato la fase precedente alla sua partenza: era fra i 24 studenti selezionati in tutto il mondo dall’ università della Grande Mela per il corso di Film producing. Aveva deciso di raccogliere online i fondi necessari per pagare la retta del primo anno, oltre 80mila euro. “Il mio sogno è poter lavorare anche su progetti italiani. Le storie da raccontare nel nostro Paese non mancano, soprattutto storie con prospettive femminili”. Lo scorso anno, insieme ad altre coetanee, ha pubblicato un’antologia sulle donne rivoluzionarie della sua regione dal titolo “Più diritti per streghe malvagie”.

Al momento dell’intervista, Federica è alle prese con due documentari prodotti dalla società dove lavora come produttrice associata. Parallelamente sta seguendo la possibile qualificazione agli Oscar del suo nono cortometraggio dal titolo Ayaan. “Insieme alla regista Alies Sluiter abbiamo vinto un festival importante in Nuova Zelanda – racconta – ci siamo qualificate e adesso abbiamo una chance di arrivare alla nomination”. Il lavoro da produttrice le è sempre piaciuto, fin dai tempi della Columbia University dove si è laureata in anticipo rispetto ai tre anni convenzionali. “La mia tesi è diventata un cortometraggio, un’allegoria dove persone di diverse nazionalità si trovano a dover condividere lo stesso spazio durante una tempesta ad Atene”. Refuge, questo il nome del corto, è stato notato anche dalla rivista The New Yorker, che ha deciso di pubblicarlo. “Per me è stato il coronamento di un lungo lavoro a cui tengo molto”.

“Negli Stati Uniti è più facile fare impresa. La differenza con l’Italia è che qui con 2mila dollari si può aprire una società per fare un lungometraggio, in Italia bisognerebbe avere una società registrata come S.r.l. con 40mila euro di capitale in partenza”. Per i cortometraggi si abbassa a 10mila euro. “Nel caso dei corti, per esempio, perché creare un’ulteriore barriera se si vuole emergere quando ci sono già abbastanza problemi da risolvere per sviluppare un film? Il compito di una produttrice è scoprire una storia, svilupparla con chi ne scriverà la sceneggiatura, mettere insieme un team, trovare le maestranze che gli daranno poi una forma concreta, mettere insieme i fondi per finanziare la produzione, e poi fare in modo che il film arrivi di fronte ad una platea”.

Arrivata dalla provincia marchigiana ad una delle capitali del cinema internazionale, Federica non ha perso tempo: “Ho iniziato come location manager, prima per un film di Deborah Kampmeier  prodotto da Veronica Nickel, co-produttrice di Moonlight del regista Barry Jenkins (tre oscar nel 2017 tra cui miglior film ndr), poi al film Italian Studies del regista Adam Leon. Successivamente come produttrice associata per una serie TV su Nuvolari e poi sempre come location manager per un documentario, Dick Johnson is Dead, che ha vinto due premi Emmy. Ho lavorato come assistente di produzione nella casa di produzione Counter Narrative Films con a capo il regista J. C. Chandor e attualmente lavoro alla Film Manufacturs Inc”.

“La produttrice rispecchia la mia doppia personalità, pragmatica e artistica, e mi da gioia l’idea di creare una comunità attorno a un’esperienza. È come formare una squadra, non bastano giocatori forti ma i compagni giusti – afferma –. Ci sono sempre delle sfide e a me piace trovare modi creativi per risolverle”. Ci sono problemi, poi, con cui si deve convivere se sei immigrata. “C’è tutta una serie di burocrazia per i visti, cosa puoi fare cosa invece no, se non hai la green card o il visto per una specifica mansione non ti assumono. Questo scoraggia a volte – confessa –, però, da buona italiana, la skill dell’arte dell’arrangiarsi è sempre insita nel dna!”.

E il pensiero dell’Italia ritorna spesso. “Adoro la mia terra e mi piacerebbe poter produrre anche le storie delle mie Marche. Mi manca la genuinità e la semplicità degli incontri che si riescono a fare nel nostro Paese. Qui il modo in cui ci si relaziona alle persone è diverso, spesso accade che le conoscenze, soprattutto nel mondo del cinema, siano più uno scambio di favori, e a volte questo rende i rapporti o superficiali o comunque meno spontanei. Non è così con tutti, certo, ma accade spesso. La cosa positiva però è che si lavora al di fuori di qualsiasi forma di pregiudizio e con grande attenzione a tematiche sottorappresentate, e con questa libertà si può sperimentare più facilmente”. L’obiettivo è creare un ponte lavorativo tra i due continenti. “Sono all’inizio della mia carriera e voglio continuare ad investire in quello che ho iniziato qui negli Stati Uniti senza perdere quella dimensione internazionale che ha caratterizzato il mio lavoro. New York ferve di un’estrema multiculturalità, offre uno spazio di collaborazione con personalità da tutto il mondo. Sul lungo periodo, mi piacerebbe produrre in Italia, ma in questo momento non sono incentivata a tornarci stabilmente”.

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