Non si arresta l’ondata di proteste in Iran, ormai dilagate in almeno una decina di città principali, all’indomani della notizia dell’uccisione da parte della polizia di Mahsa Amini, una ragazza del Kurdistan iraniano che era stata fermata dalle autorità a causa di come portava il velo, obbligatorio per legge nella Repubblica islamica. Proteste non solo partecipate ma anche connotate da un livello di rabbia visibilmente più alto rispetto alle precedenti del 2017, 2019 e 2020, con decine di manifestanti anche armati di molotov che sembrano disposti a tutto pur di produrre un cambiamento. Una rabbia che sta superando in intensità il rancore – cioè il sentimento che secondo Esfandyar Batmanghelidj caratterizzava le altre manifestazioni degli anni scorsi, da quelle sulla disoccupazione, a quelle sull’approvvigionamento idrico fino a quelle contro il sostegno dell’Iran alle sue proxies regionali -, e che suggerisce un primo importante momento di svolta: la saldatura delle istanze delle diverse fasce della popolazione, ormai su livelli di incomunicabilità col regime mai riscontrati dal 1979.

Negli scorsi anni in Iran si è protestato per diverse ragioni, ed a scendere in piazza erano state di volta in volta categorie sociali distinte. Pane e libertà sono due degli elementi che in un certo senso avevano tenute separate le proteste: chi chiedeva il pane, soprattutto le fasce più conservatrici del paese, colpite più di altre dalla crisi economica indotta dalle sanzioni e dal contestuale impegno iraniano nei conflitti regionali, nonché quelle che sono state anche “sollecitate” maggiormente dal protagonismo militare iraniano, attraverso campagne di reclutamento, lo faceva anche da una posizione che reclamava il rispetto delle ragioni per cui si era fatta la rivoluzione nel ‘79, cioè il rafforzamento della sovranità e la securizzazione dell’autonomia decisionale del paese, più che le campagne in giro per il Medio Oriente.

Sono queste le fasce della popolazione che avevano scandito più slogan contro il sostegno di Teheran alle sue proxies, allo stesso tempo tenendosi ben lontana dai canti nostalgici pro-Pahlavi – percepiti generalmente come espressione di cospirazioni estere – in alcune città iraniane negli anni scorsi. Questa fascia della popolazione era mossa dalla rabbia, stimolata dall’ingiustizia sociale e dal tradimento percepito di alcuni ideali, e dalla fame. Oggi questa rabbia è arrivata al punto di ebollizione, come racconta a ilfatto.it Hossein, infermiere di Shiraz, la cui famiglia fino al 2015 votava per candidati conservatori. Se da un lato si registra la suddetta saldatura delle istanze di fasce di popolazione diverse, accomunate dalla aperta ostilità verso l’establishment, la novità in questo segmento della società sembra essere proprio una inedita divisione interna di un fronte considerato generalmente omogeneo, nonché reticente a prendere di mira la Repubblica islamica in quanto tale.

“La maggior parte sta ancora in silenzio, abituata a criteri di fedeltà al regime, anche per ragioni concrete, ed in generale presi dal dilemma sul se e sul dove posizionarsi; alcuni sono sempre ostili alle proteste e sono convinti si tratti di una cospirazione guidata dagli attivisti iraniani negli Stati Uniti; ma un numero sempre più grande di persone che hanno partecipato alla rivoluzione, come mio padre, sono oggi favorevoli alle proteste”, racconta Hossein, che due settimane fa era andato in Canada per visitare dei parenti e ora medita se rientrare o meno.

Chi chiedeva libertà, almeno una decina di anni fa, lo faceva in parte da un’altra posizione semi-organica alla Repubblica islamica (sulla cui ragion d’essere e lettura della postura “antagonista” c’è sempre stata una discreta divisione, soprattutto tra i politici riformisti che rivendicavano una maggiore vicinanza personale a Khomeini e tra quelli principalisti, che gradualmente hanno preso il controllo delle strutture e istituzioni militari), cioè quel sentiero vagamente tracciato, e ormai intralciato dai rovi, prima dall’ayatollah Hossein Ali Montazeri, poi dal presidente Mohammad Khatami (la cui ambizione in direzione di un dialogo con l’Occidente era stata malamente soffocata dalla sciagurata politica di Bush jr), dal candidato alle contestate presidenziali del 2009, Hossein Mousavi, agli arresti domiciliari dal 2011 ed infine, in parte, da Mostafa Tajzadeh, ex ministro del governo Khatami, anche lui arrestato per l’ennesima volta – la prima nel 2009 – lo scorso luglio.

Quest’ultima fascia della popolazione – a sua volta eterogenea e tormentata al suo interno, come è eterogenea la cultura politica nella società iraniana – è quella che ha “sposato” il totale disincanto, quella che ha cassato ogni possibilità di cambiamento endogeno della stessa natura della repubblica islamica, della possibilità che essa si evolvesse – come in parte ha fatto a cavallo dei due millenni – in una direzione compatibile col mondo globalizzato con cui l’Iran, per sua stessa “indole”, e per la struttura della sua economia, vuole e deve fare i conti.

La religione non ha davvero un ruolo nella faccenda: all’obbligo dell’hijab, e più in generale al recinto apposto dallo Stato su diverse libertà personali, si oppongono anche e soprattutto persone religiose, ed anche donne che indossano volontariamente il chador (non obbligatorio). Si tratta dell’impossibilità di sopportare obblighi che sembrano improvvisamente spogliati di qualunque senso, per i quali non c’è più nulla che li faccia sembrare un sacrificio in qualche modo conveniente: anche per i più conservatori, che in numero sempre maggiore vedono il regime come una organizzazione di natura repressivo-militare, più che “religiosa”, che pensa al proprio posizionamento nei confronti dell’Occidente ma sempre meno ai “mostafazan”, gli oppressi, cioè quelli che sarebbero dovuti essere al centro delle preoccupazioni della repubblica islamica al suoi albori. Le fratture generazionali, quelle che non di rado pongono di fronte padri e figli – i primi sempre più anziani per difendere rendite di posizione acquisite nel tempo, i secondi nati e cresciuti nel disincanto e nella frustrazione dell’unico sistema politico istituzionale in cui hanno vissuto – sembrano poi venire improvvisamente meno: lo si vede proprio dalla diversa reazione generale di fronte all’omicidio, da parte della polizia, di Mahsa Amini.

A differenza della morte qualche anno fa di Sahar Khodayari, che si era uccisa dandosi fuoco dopo essere stata informata dalle autorità di una probabile condanna a sei mesi di detenzione per essere entrata “clandestinamente” in uno stadio, la morte di Mahsa Amini per mano diretta della polizia ha aperto il campo ad una indignazione generale e rabbiosa, facilmente infiammabile in un contesto di crisi socioeconomica prolungata e di crescente controllo degli spazi pubblici da parte dello Stato.

Amini veniva dal Kurdistan iraniano ed apparteneva ad una famiglia umile, molto diversa da quella di Sahar Khodayari, proveniente dalla benestante area nord di Teheran. Questo è forse un altro motivo per cui anche migliaia di persone teoricamente appartenenti al campo conservatore, in linea di massima favorevoli ad alcune regole draconiane della Repubblica islamica, sono scese in piazza: per queste persone l’uccisione di Amini non racconta tanto – o solo – l’indignazione o l’insofferenza verso il velo obbligatorio ma bensì l’estensione della crescente ineguaglianza sociale, in base a cui le persone che vengono multate, poste in stato di fermo e/o condannate per il fatto di non “rispettare” la morale istituzionale sono sempre più spesso esponenti delle classi più impoverite, e sempre meno chi da anni conduce la vita che preferisce (con ampie licenze anche su quella stessa morale costituita) nei quartieri “posh” di Teheran ai piedi degli Alborz, che non di rado – chi ricorda i “rich kids of Teheran”? – sono figli e parenti di chi detiene porzioni di potere reale, di chi stabilisce quale debba essere la suddetta morale, e quindi il grado di libertà degli iraniani.

“Il caso Amini è interessante perché la questione del velo in Iran lungi dall’esaurire quella femminile in toto – è sempre stata molto divisiva”, spiega Rassa Ghaffari, docente a contratto di sociologia all’Università Bicocca ed esperta di questioni di genere in Iran. “Le classi più umili, soprattutto in zone rurali, tendevano a considerarlo un affare che riguarda le donne più liberal, in un certo senso privilegiate, di Teheran e altre città. Oggi la situazione sembra essere cambiata, e la frattura di classe venuta in qualche modo meno. Le rivendicazioni si stanno estendendo in generale alle regole patriarcali, ed è centrale la questione dell’intersezionalità: non abbiamo a che fare solo con l’omicidio di una giovane donna ma quello di una donna qualunque, di famiglia umile, di una minoranza etnica, ed è proprio l’intreccio tra questione etnica e di classe ad aver fatto riemergere così prepotentemente le rivendicazioni femminili. Questo perché la classe sociale e l’etnia, in Iran, sono sempre più decisive nell’accesso alla sfera pubblica, così come nel trattamento che riserva la polizia”, continua Ghaffari. “Anche per questo quella del velo sembra si stia trasformando da questione divisiva a catalizzatore della protesta stessa, e si riflette in un rinnovato protagonismo femminile in piazza”, conclude. Fino a qualche anno fa le donne protestavano levandosi il velo, e spesso lo facevano in condizione di relativa solitudine, come se il loro fosse un sottocapitolo della protesta; oggi, aggiunge Ghaffari, “gli stessi slogan della protesta incorporano con orgoglio la questione femminile, e le donne non vengono più lasciate sole a sventolare il velo su un casssonetto”.

Il regime iraniano fa i conti con una realtà che ha sottovalutato a lungo: quella che veniva in qualche modo nascosta dai (reali) tentativi occidentali di ingerenza, dalle sanzioni che miravano proprio ad alimentare fratture tra società civile e establishment, da quella che qualcuno ancora percepisce o chiama “gharbazadegi”, intossicazione da Occidente, e in generale dal fatto che è impossibile isolare un paese così naturalmente esposto al mondo, schermarlo da ovvie contaminazioni e commistioni. Una realtà che potrebbe avere una dimensione che ancora non capiamo, proprio perché non sono ancora chiare le modalità con cui segmenti della popolazione teoricamente lontani tra loro vogliono o vorranno dialogare, avendo già trovato un terreno comune nel rancore e nella rabbia verso chi detiene il potere.

Fino allo scorso anno c’erano proteste localizzate e specifiche, condotte da soggetti diversi e spesso non comunicanti, a volte quasi ostili. Ora c’è una protesta generale e unidirezionale, da un lato sollecitata dall’idea che ormai la Repubblica islamica sia tutto fuorché il regime “degli oppressi”, e dall’altro dall’idea che questo regime non solo non faccia gli interessi della propria società ma che sia inaffidabile a tal punto da essere concretamente e fisicamente pericoloso – e dunque che valga la pena di rischiare l’incolumità scendendo in piazza, in un Paese in cui il blocco di internet da parte delle autorità prefigura ulteriore repressione -, come ricordano per esempio i parenti e gli amici delle 170 vittime dell’aereo di linea ucraino abbattuto per errore dalle autorità, impegnate nella rappresaglia simbolica contro le truppe Usa in Iraq, all’indomani dell’assassinio di Soleimani nel gennaio 2020.

Le alternative per il regime non sembrano molte: la repressione può anche continuare (36 morti al momento) ma non farà altro che rafforzare questa saldatura in una società in cui sempre più persone hanno pochissimo da perdere; d’altra parte, qualunque concessione verrà interpretata come un segnale di cedimento sul quale insistere, e che avrà anche la potenzialità di polarizzare il quadro, riducendo pericolosamente il tutto ad un conflitto tra pro e contro, tra chi vuole cambiare tutto per ottenere libertà, dignità e pane, e chi crede o è indotto a credere che cambiando tutto, ottenendo le libertà, ri-perderà il residuo pane e la sua residuale idea di dignità.

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